Mea Culpa.

Un po’ come la recitazione del Padre Nostro, il Mea Culpa è uno dei momenti topici della messa. Il momento in cui ogni bravo cattolico ammette le proprie colpe davanti al Signore (ovvio che nel 90% dei casi il pensiero tipo del partecipante alla messa è più o meno “ok mi hai beccato con le braghe calate, quindi scusa. Ma se non mi sgamavi col cappero che me scusavo!”) Teologia da bar a parte, la mia educazione cattocomunista mi fa cadere spesso nella fatale rete del mea culpa, ossia nell’etichettare frettolosamente musiche e band, spesso per mancanza di tempo/voglia di ascolti prolungati.

Non che ne servano molti per capire di che pasta sia fatto “Dream Get Together” dei Citay. Le coordinate sono quelle del crocevia fra folk elettrificato fine ’60 e le incursioni del nascente hard rock dei primi ’70, tutto ben illuminato dal sole della California. Insomma la solita roba passatista in cui sguazzo abitualmente, ma che nel precedente Little Kingdom mi aveva così fracassato gli zebedei da farmeli eliminare preventivamente dagli ascolti. Mossa sbagliata alla luce di questo nuovo disco, freschissimo esempio di come si possa suonare “vecchi” nel 2010, ma senza la puzza di stantio e vetusto. Ossia non calligrafica e sterile riproposizione del passato, ma un sincero tentativo di ricreare atmosfere andate e forse perdute.

Otto tracce senza grosse cadute qualitative, ottimamente prodotte (encomio per il suono cristallino delle chitarre fra folk e jingle jangle Byrdsiano), dall’iniziale "Careful With That Hat" (che poco ha di che spartire con l’Eugene di pinkfloydiana memoria), fra percussioni, fuzz ad aprire la strada e melodia solare da sorriso ebete, passando per le reiterazioni acid folk di “Secret Breakfast” e la ballata-che-ne-ricorda-mille-altre (senza che ciò diventi un difetto) intitolata “Mirror Kisses”, fino ai due picchi dell’album, i 7 minuti di “Hunter”, fra reminiscenze Hawkwind in phaser, con tanto di assolo e chiosa finale con archi celestiali, e la gentilezza shoegaze folk (scusate lo stridore dell’accostamento) della cover di “Tugboat” dei Galaxie 500 posta in chiusura, suggello di un disco che non cambierà le sorti dell’odierno panorama musicale, ma porterà una ventata di aria fresca e un bel sorriso in quelle vostre (e mie) facce incazzate.

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