Nell'anno 2003, quando la vecchia guardia della dark-wave era ormai estinta e le nuove leve del genere si stavano consolidando in un panorama sempre più di facciata e sempre meno di sostanza, gli olandesi Clan of Xymox produssero il loro album più elettronico in assoluto, riaffermando una leadership che non tutti davano per scontata. Giunti ad oggi con venticinque anni di onorata carriera alle spalle (e diventando dunque uno dei più longevi gruppi dark), all'inizio degli anni 2000 Ronny Moorings e soci ridipinsero il loro sound eliminando progressivamente le chitarre e insistendo sulle tastiere, senza perdere quella patina di malinconico e adombrato romanticismo, ma - se vogliamo - calcando ancor più l'impronta nichilista e "gotica". Di fatto l'album "Farewell" rappresentò (nel 2003) l'apice e il punto di non ritorno della loro creatività, che sposò la logica di una techno martellante e ronzante coniugata alle atmosfere care alla band; con liriche minimaliste cariche di pathos e tensione e un approccio decisamente disilluso.

Questo lavoro, confezionato con cura e dotato di una pulizia acustica davvero mirabile, esordisce con un'accoppiata di pezzi inesorabili, che lasciano il segno immediatamente vuoi per i refrain lineari, vuoi per la scansione precisa del ritmo. La titletrack "Farewell" e "Cold Dump Day" sono due perle di techno colta che trascinano in un tripudio di sintetizzatori e di emozioni decadenti, rivisitando le immagini evocate nel memorabile disco d'esordio "Clan of Xymox" (1985) con una chiave di lettura aggiornata e ripulita dalle inclinazioni più trasognate.

L'aura di buio e inquietudine non cede col proseguire della tracklist, che si snoda attraverso brani dai titoli eloquenti come "There's No Tomorrow" e "Into Extremes" senza lasciare dubbi sugli umori che li hanno ispirati. E se verso la fine le reminiscenze eighties alla Sisters of Mercy di "Losing My Head" sembrano aprire uno spiraglio di ironia in questa fiera dell'angoscia, la conclusiva "Skindeep" riazzera lo stato di veglia emotivo e chiude con un taglio lugubre l'ascolto.

Non è un caso che dopo "Farewell" ci sia stato un tentativo di recupero capace di rimescolare le carte, con un ritorno alle chitarre e un poco riuscito mascheramento del techno-sound. In realtà "Farewell" è stato l'insegna di un percorso evolutivo che, nella scena wave europea, non poteva fare a meno di darsi un'identità più precisa. Identità abilmente spostata sull'elettronica e capace di assumere un profilo estremamente dark a dispetto del luogo comune che il dark sound non possa rinunciare alle chitarre. In effetti qualche esegeta e fan del gruppo olandese ha storto il naso, ascoltando "Farewell", per poi ricredersi qualche anno dopo all'uscita del malriuscito e banale "Breaking point".

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