Ci vorrebbe un coefficiente di difficoltà, nelle recensioni.

Come per i tuffi.

Altro che DeRango.

Tu, per dire, te ne vieni qui, smargiasso, a recensire i Deep Purple di Made in Japan o Songs of Love and Hate del Cohen?

Troppo facile. Equivale a un tuffo a bomba, è bene che tu lo sappia fin da subito.

Socchiudo gli occhi, e ti vedo. In equilibrio sulla piattaforma, quella del Foro Italico, quel foro che portava e porta ancora il nome di Mussolini.

Un fascio – è proprio il caso di dire - di nervi e concentrazione a dieci metri d’altezza. La tua partenza è perfetta, la postura impeccabile, l’entrata in acqua eccellente. Entri, e non fai uno schizzo che è uno, meglio di un malato cronico di eiaculazione retrograda.

Tutte le bandierine si levano in un plebiscito: 10-10-10-10-10-10…

No, aspetta. Cristo. C’è il giudice croato, quello stronzo, che ha in serbo per te un 9,5.

Curioso, peraltro, che un croato abbia qualcosa in serbo, ma tant’è…

Bellissima recensione, comunque. Toccante, a tratti. Ci hai commosso, con quell’aneddoto sulle doppie punte di Ian Gillan…

Cionondimeno, sempre un tuffo a bomba resta. E ti becchi un coefficiente di difficoltà di 1.0.

Adesso lèvati di mezzo, però.

Adesso, ti faccio vedere un tuffo cosiddetto “Kamikaze”, carpiato all’indietro, con partenza ritornata, 6 avvitamenti e 2 salti mortali e mezzo.

Adesso, quantevveriddio, vada come vada, recensisco Baglioni su Debaser.

Coefficiente di difficoltà, dici?

Quattropuntosettanta, ragazzo.

“E perché non cinque tondo tondo…”, ti chiederai.

Perché cinque tondo tondo è una recensione su Baglioni con track-by-track.

Salgo sulla piattaforma.

L’unica cosa che sento è il battito del mio cuore, e una voce che mi dice “Non farlo, benedetto ragazzo… Hai recensito l’ultimo quartetto di Shostakovich e il Falstaff di Verdi… Cosa ti salta in mente?”.

Poi il vento sulla faccia. E i miei piedi, sconsiderati e bambini, che si avvicinano al bordo.

Passettini rapidi rapidi verso il baratro d’un quadratino azzurro azzurro, piccolo piccolo, là, sotto di me.

Mi volto. Ché forse vi ho già detto che il mio è un tuffo all’indietro.

Apro le braccia, chiudo gli occhi e prendo a fare dei respiri profondi. Hai mai provato ad ascoltare Händel, in questa posizione? No, non Paolo… Georg Friedrich. Prova. Non serve una piscina né una piattaforma. Basta un mangiacassette.

Ma ora non è il momento di Georg Friedrich. Ora è il momento di Claudio.

Faccio un respiro più profondo degli altri.

E salto.


Sabato pomeriggio, per me, è Sabrina, un’amica di un’amica di un’amica con cui ero già a buon punto, e una di quelle feste in casa, e il tavolo sulla parete, panini misti e spuma per la sete, la fonovaligia e le serrande scese e i genitori di là.

L’esame delle medie a un passo.

Quel giorno, alla fonovaligia, c’ero io e i miei quattordici anni, a sceglier musica e a tener caldo l’ambiente.

Non era difficile: c’erano dieci 45 giri in tutto, un pugno di maschi, una manciata di femmine, e una quantità di ormoni che neanche nel laboratorio del dottor Agricola.

E Sabrina, bella come un passante di McEnroe, che si avvicina a me e a quell’embrione di consolle, rassettandosi dietro l’orecchio una ciocca di quei rilucenti capelli neri, come sanno fare solo certe donne, e mi sussurra: “Me lo metti, Sabato pomeriggio?”

E io, pronto: “Non posso… sabato pomeriggio sono impegnato”.

L’ho aspettata per anni, dopo quella sera. Volevo solo dirle che non era una battuta.

Poco tempo fa, l’amica dell’amica mi ha detto che ora vive nella provincia di Verbano-Cusio-Ossola con Antonio, un tizio che ha messo su una ditta di lamierino ondulato, dice sempre “quant’altro” al posto di “eccetera” e crede che CCCP sia l’acronimo di Cucurrucucù Paloma.

Io avrei solo voluto dirti, Sabrina, che t’aspetto ancora per dirti che ti volevo dire che non era una battuta.

Io, Sabato Pomeriggio, mica la conoscevo. E se la conoscevo, facevo finta di no.

Come la provincia di Verbano-Cusio-Ossola. L’ho scoperta ora, novello Colombo, grazie a Sabrina, la mia regina Isabella. E la immagino lì – la provincia, non Sabrina - persa nelle brume delle risaie, nata dal secolare contrasto tra il governo centrale di Novara e il Movimento Secessionista Verbanese, culminato nella Rivolta del Riso, in cui giovani verbanesi travestiti da mohawk si imbarcarono a bordo dei vascelli novaresi ancorati nel Ticino e gettarono in acqua le casse di riso stipate nelle navi.

Così, comunque, c’avevano insegnato, i nostri cugini più grandi, quelli venuti su a Punk e Progressive inglese: Baglioni era noioso. Punto. Al limite, qualche timida apertura poteva essere concessa a Faust’O o ai Rovescio della Medaglia… Ma tutti gli altri italiani, nessuno escluso, cadevano peggio che nella XII Battaglia dell’Isonzo:

  • Allora, guarda, è facile, France’… Nun te pòi sbaja’: Guccini è triste, Battisti è fascista, De André è comunista. Sbadiglioni è lagnoso.
  • E Dalla?
  • Dalla è frocio. Allora mejo Sbadiglioni, guarda….
  • Ma un italiano bono ce sarà, no…?
  • Vincenzo Bellini.
  • Vincenzo Bellini? E chi è.…?!
  • Che cazzo ne so… Però, se fai er musicista e te mettono su ‘e cinquemila lire, un motivo ce sarà, no?!…. Te, Baglioni, l’hai mai visto, su quarche banconota?

Gente semplice, i miei cugini.

Io, poi, in effetti, posso confermarlo: Baglioni, non l’avevo mai visto neanche sulle cinque lire, figuriamoci sulle banconote. Piuttosto che metterci Baglioni, c’avevano messo un delfino e un timone, sulle cinque lire. Che come accoppiata è più discutibile di Wess & Dori Ghezzi…

E tutti i torti mica ce li avevano, i signori della Zecca: Lui pure ce l’aveva messa tutta, per costruirsi una reputazione così…

Poi, però, c’è questa cosa strana: che per sapere se una cosa ti piace o no, tocca assaggiarla. C’è poco da fare, non ci son santi. Lo dico sempre, ai miei figli, quando siamo a tavola: non basta quel che ti dice tuo fratello, o annusarla, o leccarla, o metterne in bocca una parte infinitesimale, di questa cosa… No. Tocca proprio assaggiarla. Mettere da parte tutti i pregiudizi e lasciare che quella cosa ti riempia la bocca e conquisti tutti i tuoi sensi.

Solo allora puoi dire “non mi piace”.

E allora mi faccio forza e decido di assaggiarla, questa cosa che si chiama “Sabato Pomeriggio”.

Con un solo obiettivo: “Devo riconquistare Sabrina, devo riconquistare Sabrina, devo riconquistare Sabrina, devo riconquistare Sabrina, devo riconquistare Sabrina, devo riconquistare Sabrina, devo riconquistare Sabrina, devo riconquistare Sabrina, devo riconquistare Sabrina.”.

Il mio personalissimo “Il mattino ha l’oro in bocca”.

E così, prigioniero di quell’Overlook Hotel ch’è diventata la mia cameretta, scendo giù da “Ferruccio Records” e chiedo al mio Lloyd di servirmi una bottiglia di Bourbon, con del ghiaccio, e una copia in bachelite di “Sabato pomeriggio”.

“Ma che sei diventato scemo?!”, mi fa Ferruccio. “Proprio oggi è uscito The Nightfly di Donald Fagen e te me vieni a chiede Baglioni?! Ma che te sei rincojonito?”.

“Senti, devo riconquistare una ragazza, Ferru’…”, farfuglio io.

Che poi, riconquistare si fa per dire, visto che non l’avevo mai conquistata…

“È quel che mi dicono tutti: devo conquistare una ragazza. Iniziano tutti così: con la convinzione di poter smettere quando vogliono e con l’unico obiettivo di scivolare sotto le lenzuola con una che non capisce un cazzo di musica ma che c’ha du’ tette che lèvate. Nessun essere umano, maschio, senziente, minimamente evoluto musicalmente, ascolterebbe Baglioni, se non esistessero le donne. France’, damme retta… Baglioni è come la gonorrea: una malattia a trasmissione sessuale.”

“Lo sento una volta sola, Ferru’, giuro…”

“Va bene, fai come cazzo te pare… Tie’.”

Il tempo di barricarmi nella mia cameretta e di sentir sfrigolare la puntina che si adagia sul solco, e quella canaglia che parte con “Passerotto, ti ho aspettato tanto e adesso tu sei qui… Passerotto, la tua canzone canto, do re mi fa sol… Ed aspettare, ed aspettare, ed aspettare…”.

Sembrano scritte per me, queste parole…

Maledetto tu sia, Baglioni. Aveva ragione Ferruccio.

E dire, leggo fra le note, che l’album è arrangiato da Luis Bacalov…

Io, quattordicenne che aspetta Sabrina in un afoso sabato pomeriggio della Roma degli anni ’80, e un maledetto album che ha un solo fil rouge, direbbero Gennaro Ulivieri e Guido Pancaldi: quello dell’attesa.

E quel sabato pomeriggio, dentro quel “Sabato pomeriggio”, scopro un’umanità che trascorre il suo tempo aspettando qualcosa, proprio come me. Io aspetto Sabrina, e gli altri aspettano il 9 barrato, il paradiso, la primavera, un tuo sorriso, Babbo Natale, le medicine, la promozione, un’altra vita, la buonanotte, le chiavi di casa, la comunione…

Una moltitudine di apolidi il cui unico stato di appartenenza è quello dell’attesa. Zombi di un tempo presente che brancolando si consumano, aspettando qualcosa che non arriverà mai.

Baglioni cristallizza tutto e tutti, fossili imprigionati nell’ambra dell’attesa: il tizio seduto con le mani in mano, sopra una panchina fredda del metrò, con un poster che qualcuno ha già scarabocchiato che dice “Vieni in Tunisia”, la nonna che aspetta la visita dei nipoti e intanto si consola con un cofanetto tutto impolverato e dentro una fotografia con il tuo primo fidanzato, tenente di cavalleria, il Giuseppe che sa che la sua solitudine è una bugia per sopravvivere, che vuol tornare giù nel Sud e intanto svuota posacenere.

Poi il ragioniere che aspetta la vincita al Totocalcio, la schedina l’ha giocata e, per una volta ancora, questa sera può sperare… Sale in fretta gli scalini, col fiatone, quattro piani, c’è un odor di maccheroni col ragù.

“1 X X 2 1 X 1 X 1 1 2 1 X”. Questa, per completezza, la schedina che canta Baglioni. Conosco persone che l’hanno giocata tutte le domeniche che dio ha messo in terra. Aggiungo, per ulteriore completezza, che non è mai uscita, compimento perfetto e concreto di un’attesa che s’è levata dall’album e s’è materializzata nelle giornate di chissà quanti ragionieri…

Poi i cattolici del ‘500, che aspettano un Papa mijore, m’ariccomanno a te, nostro Signore, un quarcheduno che ‘gne piace er foco, uno che c’ami, preghi tanto e campi poco.

E già, perché questo Sisto V, da semplice frate conventuale d’un paesino sperduto delle Marche, in soli cinque anni di pontificato, era diventato il terrore della città intera, tra riforme ed esecuzioni sulla pubblica piazza. Nel sacro fuoco riformatore, riorganizzò anche il sistema della riscossione dei tributi, che affidò a sanguinari drappelli di suo conterranei: l’espressione “Mejo un morto in casa che un marchisciano fòri la porta” nasce proprio da qui.

“E avanti a lui tremava tutta Roma”, avrebbe potuto dire qualcun altro. E invece Baglioni dice: “Quasi che fusse inverno, Sisto fa foco e fiamme tutt’intorno, quasi che fusse già venuto inverno, dice che ce prepara ar callo dell’inferno”.

Poi l’attesa di una leggenda nordica. Niente a che vedere con Wotan, Flosshilde, Wellgunde, Grimgerde, e i loro nomi da sedie dell’Ikea… Niente di tutto questo.

Il lago di Misurina ci racconta d’un re del Cadore, Sorapiss, che, per amore della figlia, si tramuta in una montagna e il suo pianto dà vita a due ruscelli, che finiscono per formare il lago di Misurina, dal nome della figlia.

Sorapiss chiuse gli occhi e il capo chinò, e giorno e notte aspettò, finché di pietra non fu, e con le lacrime che scesero giù, un verde lago formò, tra abeti e genziane blu.

E infine, una ragazzina al suo primo appuntamento con un ragazzino che non arriverà mai. Quel cenotafio all’attesa che è Lampada Osram, monumento funebre a un sentimento che oggi, che t’aspetti ben poco, non sai neanche più com’è fatto, dove andarlo a cercare, dove sono le sue spoglie, se ti viene voglia d’andarci a dire sopra una preghiera.

Lampada Osram, lui non è più venuto, i passi sul selciato ti fanno compagnia, e a testa bassa te ne torni a casa tua, “Biglietto, signori’…”, le otto e mezza.

Lampada Osram - l’ho saputo anni dopo - si chiama così perché, in occasione delle Olimpiadi del 1960, fu installato a Roma in piazza dei Cinquecento, davanti alla Stazione Termini, un lampione con lampada allo Xeno Osram da 2.500.000 di lumen e 75 kW di potenza, primato mondiale dell’epoca per una singola lampada. Tanto che tutti i romani lo elessero a luogo d’appuntamento ideale.

“…’ndo se vedemo?”

“Famo sotto ‘a lampada Osram, no?!”

Anche mia madre, mi ha raccontato, ha aspettato lì mio padre. Solo che lui, per fortuna, è venuto.

Poi, d’un botto, la cameretta di quell’adolescente è sparita. Inghiottita da quarant’anni che son sembrati una manciata di quarti d’ora. Dall’esame delle medie, quel ragazzino, s’è ritrovato a far la tesi all’università, in un amen.

A rileggerlo ora, non sembra che un flashback.

Ora c’è un signore brizzolato che ha finito da un pezzo l'università, spinge un carrello nel reparto surgelati dell’Esselunga e, quando sente qualcuno dire “m’è andato male un esame”, pensa alle transaminasi.

Poi questo signore la vede.

Sabrina, intendo.

Son passati quarant’anni, ma il gesto per sistemarsi i capelli dietro l’orecchio è rimasto lo stesso.

Trasalisce, questo signore, più emozionato del professore di matematica di Whitney, quando, compito alla mano, si avvicinava alla cantante ancora imberbe e pronunciava la celebre frase “Houston, abbiamo un problema”.

Lui e lei, quarant’anni dopo, finalmente soli, due sconosciuti tra due ali di una folla di naselli decapitati, seppie eviscerate e spinaci a cubetti.

  • Sabrina, ti ricordi di me…? Io tanti anni fa non volevo fare una battuta…
  • Ciao, Francesco… Certo che mi ricordo. Ma quel pomeriggio ho capito che tu non volevi metterti con me…
  • Ma io ti amavo…
  • Ah sì? E beh, io credevo di no…
  • Come!? Come no!? E anche dopo… per tutti questi anni, io non ho fatto altro che pensare a te…
  • Eh, ma io no…
  • Ah…
  • Scusa, Francesco…. Dieci anni fa ho sposato Antonio, ho avuto due figli, poi la casa, il lavoro, i soldi che non bastavano mai… Anche tu avrai avuto questi problemi, no?
  • Sì, naturale… Ma sai, io pensavo che un grande amore fosse un grande amore…
  • Oh sì, certo… Ma ormai erano cose passate… E poi io da allora voglio bene ad Antonio…
  • Che c’è?
  • Niente. Volevo solo dirti che è grazie a te che ho capito Baglioni…
  • Davvero!? Ricordi come ti dicevo? Baglioni è il Pascoli della canzone italiana… Il cantore delle piccole cose. Non è poi necessario volare fino al sole, in fondo basta strisciare sulla terra fino a un posticino pulito dove a volte il sole appaia e ci si possa scaldare un poco.
  • Ma questo è Kafka!
  • Sì, è Kafka. Ma è anche Baglioni…

L’ho vista allontanarsi, così, Sabrina.

Ho aspettato ancora, perché divenisse un puntolino lontano, all’altezza del reparto casalinghi.

Non era ancora andata via, e già l’aspettavo.

L’attesa è lunga, Sabrina, il mio sogno di te non è finito, come diceva Montale.

“Sabrina” a parte.

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