Sono inciampato nei Colour Haze quasi per caso, durante uno di quei viaggi in macchina solitari e interminabili che talvolta si avvicinano molto ad un'esperienza mistico-lisergica: ti danno la possibilità di pensare, di offrire in sacrificio al dio Marlboro gli ultimi brandelli della tua giovinezza alveolare e, soprattutto, di estendere le tue capacità percettive.

Senza rendermene conto, mi sono ritrovato a fare il salmone con la loro discografia, risalendo la corrente che mi aveva tagliato la strada all'improvviso, facendomi sbandare, al momento dell'uscita di "Los Sounds De Krauts" ('03). Ed è così che mi sono imbattuto in "Ewige Blumenkraft".

Pubblicato nel 2001, "L'Eterno Potere Dei fiori" è il quinto album della ormai lunga carriera del terzetto di Monaco, capitanato dal gigantesco chitarrista Stefan Koglek. Forse non il LORO capolavoro, ma certamente un disco bellissimo che, per certi versi, fa un po' da spartiacque tra quanto fatto sentire dalla band nella prima fase della sua carriera e le produzioni più recenti. Il sentiero principale, infatti, è ancora quello dello stoner ultrawattoso, ma ormai è sempre più facile perdere l'orientamento tra accennate divagazioni jammistiche e sospiri prog-psichedelici: canzoni come zolle di un terreno pietroso, fatto di chitarre enormi, distorsioni valvolari crepitanti, ruvide e arroventate, che però si rivelano essere l'humus ideale per il germogliare di incisi strumentali destinati a rimodellare e "sfumare" la forma canzone. Le radici prettamente stoner, comunque sempre in primo piano ("Goddess", "Freakshow"), possono allora distendersi, allungarsi in timide ed inaspettate ramificazioni di atmosfere fumose ("Refeer"), ipnotiche, quasi intimiste ("Smile 1").

La voce di Stefan, ora dolce e sussurrata, ora roca, profonda e indurita dall'accento tedesco, si sposa a melodie intrise di una sorta di "vigore latente" che si gonfiano e si ingrossano come preda dell'alta marea, per formare una musica che, in alcuni episodi, pare voler starsene seduta in un angolo a mangiarsi le unghie, prima di alzarsi e mettersi ad urlare ("Outside"). Capita così, che accanto a groove settantiani, brevi duetti di basso e batteria ("Smile 2") e refrain spudoratamente catchy ("Almost Gone"), gli orfani dell'asteroide kyussiano possano ritrovare quello stesso misticismo elettrico che riecheggiava nella Valle Del Cielo, in un crescendo chitarristico evocativo e ammaliante, pervaso di poetica tristezza, crepuscolare come una storia d'amore finita male ("House Of Rushammon").

Nella conclusiva "Elektrohash" (da cui Koglek prenderà il nome per la sua casa discografica), il muro sonico del terzetto si sfalda definitivamente: in poco meno di venti minuti, costruiti su di una batteria solo apparentemente "quadrata", le distorsioni si lasciano volentieri sedurre da una sorta di diffusa "spiritualità hendrixiana", ammorbidire da afrori psichedelici, dilatare da giochi di wah wah e sgretolare fino a farsi eteree, impalpabili. Paiono crescere, fermarsi, ripartire e ritrovare la propria solidità.

"Ewige Blumenkraft" ha forse l'unico difetto di aver fatto da precursore a quel "Los Sounds De Krauts" che, a mio avviso, ancora oggi rappresenta l'apice della produzione della band. E' un disco eccellente, potente e romantico. Una splendida prova generale di capolavoro.

Carico i commenti... con calma