La scomparsa di Artis Leon Ivey Jr., noto ai più con il nome di Coolio, ha colpito molto quella schiera di ascoltatori che ricorda con nostalgia l’età d’oro del genere hip-hop, un periodo segnato dall’uscita di album memorabili divenuti ormai dei classici, punti di riferimento per chiunque, nei decenni successivi, si sia voluto cimentare con campionatori, rime e microfoni (anche se, buttando un orecchio a certe porcherie attuali, mi verrebbe da affermare il contrario).

Dopo aver letto la notizia, ho pensato con un po’ di tristezza che molti rapper dell’epoca non sono più tra noi, quasi come se una parte di quella generazione talentuosa fosse stata spazzata via dal vento. Tupac, The Notorious B.I.G., Big L sono soltanto alcuni dei personaggi saliti ai piani superiori, protagonisti indiscussi di una stagione terminata non solo a colpi di pistola, ma anche a causa dell’interessamento delle grandi major discografiche. Queste ultime hanno cambiato i connotati dell’hip-hop in nome di una commercializzazione che, se ha consentito di diffondere il genere oltreoceano, ne ha snaturato però certe caratteristiche basilari, come la durezza, la concretezza e la capacità di raccontare la realtà della vita di strada.

Coolio non è morto come un “hustler” del Bronx o di Compton, cittadina della contea di Los Angeles nota per aver dato i natali a band storiche come gli N.W.A., supergruppo californiano formato, tra gli altri, da Ice Cube, Dr. Dre e il defunto Eazy-E (tanto per cambiare...). Il rapper cinquantanovenne è stato trovato da un amico nella vasca da bagno della sua abitazione, privo di sensi. I sanitari hanno provato a rianimarlo senza risultati e, a malincuore, ne hanno dovuto certificare la dipartita.

Non siamo di fronte a una morte eroica, avvenuta sul campo di battaglia, ma a una fuga silenziosa, solitaria, a mio avviso vicina a quella di altre star del firmamento musicale (basti pensare a Michael Jackson, Prince o George Michael). Un’uscita di scena causata forse dagli abusi, dalla depressione e dal ricordo di un successo effimero, culminato con il trionfo della famosissima “Gangsta’s Paradise”, incentrata su un campionamento di “Pastime Paradise” di Stevie Wonder e in grado di fruttare all’artista losangelino un Grammy Awards per la migliore performance rap (la vittoria risale al 1996).

Questa fine malinconica, lontana dalle cronache mondane, stride molto con quella leggerezza e (auto)ironia capace di distinguere Coolio nell’affollato panorama della West Coast statunitense. Il suo esordio It Takes a Thief, pubblicato nel 1994 dalla Tommy Boy Records, si distacca infatti dai toni cupi e minacciosi del gangsta-rap (o almeno in parte), aggiungendo alla ricetta una buona dose di spensieratezza, unita a ottime doti da storyteller e a una facilità d’ascolto che risulterà gradità a chi assimila faticosamente questo tipo di sound.

Trainato dal singolo “Fantastic Voyage”, perfetto esempio del g-funk più solare e radiofonico, il disco si basa su una fusione particolarmente riuscita tra basi essenziali, ricche di campioni attinti direttamente dagli anni Settanta, e il rap scorrevole di Coolio, il quale, pur non essendo il migliore MC sulla faccia della terra, si fa riconoscere per la voce profonda, un discreto senso dello humour e l’inclinazione a raccontare storie, piccoli frammenti di vita vissuta che non mancheranno di divertire e farci riflettere.

Queste qualità si manifestano pienamente in “Mama I’m in Love with a Gangsta”, costruita su un morbido vibrafono rubato a “Mystic Voyage” di Roy Ayers e incentrata sulle difficoltà nel portare avanti una relazione tra una signorina e un “thug”, un balordo del ghetto che, nonostante sia in carcere, lei continua ad amare (emblematico il ritornello affidato alla voce di LeShaun: “Mama, I’m in love wit a gangsta and I know he’s a killer/But I love dat nigga”).

A distinguersi per la visionarietà è invece “Ghetto Cartoon”, racconto surreale dove i personaggi dei cartoni animati diventano protagonisti di una guerra tra bande rivali (non meravigliatevi se vi imbatterete in rime come: Bugs Bunny had the props on the Eastside spots/Known to hit a fly from a mile with a Glock”, fa tutto parte del gioco, che come spesso accade finisce per confondersi facilmente con la realtà).

L’aspetto singolare di It Takes a Thief, tuttavia, è la presenza di tracce più vicine a sonorità East che a quelle tipiche dell’altra costa degli Stati Uniti. Mi riferisco a “Hand on My Nutsac”, condita da quel mix di spacconeria e autocelebrazione che farà felici i “rapmaniacz (“Motherfuckers curse me but they can’t hurt me/When I’m doin dirt, that’s why I show no mercy”) o a “Smokin’ Stix”, il cui punto di forza è senza dubbio la produzione, un beat trasudante funk e soul da inserire nella colonna sonora di un’accesa battle di breakdance.

Come in ogni disco hip-hop che si rispetti, non mancano i classici “back in the days”. Il primo lo troviamo in Can-O-Corn”, disincantato ricordo della gioventù del nostro, fatta di pasti consumati non proprio in ristoranti stellati e affiliazioni alle gang di L.A. (Back in the days when I was a young buck/Stuck like a truck gettin' shit outta luck/Times was rough and I didn't have a plan/I was barely on the edge of my life as a man”), mentre nella conclusiva “I Remember” prevale un senso di malinconia per la spensieratezza di quelle giornate passate a cazzeggiare con gli amici di sempre (“People used to speak even if they didn't know ya/We fought in the streets like little black soldiers/Shake hands, and still be friends when it was over”).

Un’ultima annotazione la meritano i featuring, fortunatamente pochi e soprattutto ben selezionati (il raggamuffin di WC in “U know Hoo!”, le rime di J Ro degli Alkaholiks nella già citata “I Remember” e qualche ottimo cantato qua e là).

Si potrebbero menzionare altre cose, ad esempio la scorrettissima “Ugly Bitches”, nella quale Coolio ci illustra un vantaggio dell’agognata ricchezza, cioè la possibilità di congiungersi carnalmente con belle pulzelle (“When I was young I used to have fun/Fuckin with ugly bitches/But now that I'm grown I leave 'em alone/'Cause I went from rags to riches”), ma credo che le parole spese finora offrano un quadro abbastanza ricco e possano bastare.

In conclusione, It Takes a Thief è un album riuscito e assolutamente godibile, anche se inferiore ai lavori più blasonati di quel 1994 di fuoco (Illmatic di Nas, The Main Ingredient di Pete Rock & CL Smooth, Hard to Earn dei Gang Starr e chi più ne ha più ne metta). Rispolverarlo può essere un modo per omaggiare la memoria di Coolio, un artista dalla carriera non eccelsa e dai risultati non particolarmente brillanti, ma che merita un posto speciale nella “hall of fame” dell’hip-hop di quegli anni.

Ah, dimenticavo: riposa in pace, amico.

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