"Grin" è la smorfia allucinata dal delirio, il ghigno deforme di chi, per un attimo, ha visto l'abisso. È puntare una pistola alla tempia del thrash... e tirare il grilletto. È sottometterlo alla sua antitesi, la lentezza, e infettarlo di campionamenti e nuances dark e industrial, che sembrano pervaderlo come vento: ora sotto forma di debole, ma costante brezza, ora come impetuoso, ma passeggero temporale. È cercarne l'essenza, per poi stravolgerla.

La rilettura del genere deve partire dalle sue basi: il riffing serrato e barocco che ancora si poteva trovare nel precedente "Mental Vortex" ('91) si fa da parte, sopraggiungono accordi pieni, raramente stoppati o trattenuti, lasciati a vagare nel vuoto sorretto solo dalla sezione ritmica di Marquis (batteria) e Royce (basso). Arpeggi mai così belli, mai così ricercati e pieni di meditata melodia ("Paralized, Mesmerized"), ritmiche tribali, timide comparsate di synth, voci cavernose e gutturali, talora anche filtrate ("Infernal Conflicts"), che diventano cori di anime fluttuanti, perse anch'esse nell'abisso ("Host"). Soprattutto Tommy Baron (sicuramente tra i migliori chitarristi metal di sempre, dotato di una versatilità e di un tocco, soprattutto in fase di arpeggio e sweep, davvero notevoli) mette definitivamente da parte i funambolismi assolistici, di cui si era dimostrato eccellente interprete nelle precedenti produzioni, e porta a termine una ricerca quasi scientifica della melodia cerebrale, intimamente inquieta e morbosa, concentrandosi sull'efficacia delle soluzioni e degli arrangiamenti, più che sulla loro complessità.

Si assiste alla dilatazione dei tempi (in pratica tutti i brani superano i sei minuti) e delle architetture musicali, emerge un approccio nuovo al genere, in cui sono le atmosfere ambigue ed inquietanti ad affiorare con maggiore intensità, l'incedere viscido e al contempo abrasivo di linee più ipnotiche che melodiche ("Serpent Moves") a farla da padrone. Un quadro d'insieme in cui l'aggressività del sound non viene minimamente intaccata, ma, anzi, si ritrova nutrita da una nuova linfa, quella dell'imprevedibilità, del suono e della sonorità alieni: un "avantgarde thrash" introverso e sincopato, imprigionato nella propria intrinseca oscurità, in cui è la paura dell'ignoto a impadronirsi dell'ascoltatore, perché nulla, o quasi, sembra rientrare nei canoni di quanto il genere aveva, ormai troppe volte (siamo nel 1993), fatto sentire.

Se in alcuni episodi si possono ancora rintracciare reminiscenze del recente passato ("The Letargic Age" e, soprattutto, "Infernal Conflicts", forse l'episodio più regolare e "quadrato" del disco), è nel trittico finale che il genio prende il sopravvento. La title track, dal refrain ossessivo e claustrofobico, preludio ad un finale terrificante nel suo minimalismo martellante. "Host", con quella voce cinica che diventa feroce growl, l'incedere palesemente doomy, gli innesti elettronici e quel maledetto basso che non la vuole smettere di pulsare... prima che un arpeggio, quasi fin troppo clemente, giunga a mostrarci un po' di pietà. Ed infine "Paralized, Mesmerized", per chi scrive il capolavoro dell'album, in cui è la stessa forma canzone a smarrire la strada di casa tra un riff asfissiante, che torna con premeditata circolarità a ricondurre le atmosfere del brano ad un registro violento e oscuro, e aperture melodiche, oniriche e languide, ma mai solari.

"Grin" forse non è il capolavoro dei Coroner (posto che molti gli preferiscono il precedente "Mental Vortex"), ma rimane un disco bellissimo e ostico. Una sorta di spirale di decadentismo sonoro, in cui perdersi è bello e terribile. Un'esperienza affascinante, ma in grado di mettere alla prova anche l'ascoltatore più efferato. È l'ultimo disco di inediti di una band che non ha mai raccolto il successo che avrebbe meritato, se non altro per avere avuto il coraggio di osare, di tentare nuovi percorsi sonori, distaccandosi da quello che era stato il proprio genere di appartenenza. Una band forte non solo di un gusto compositivo geniale e innovativo, ma anche di una tecnica raffinatissima, oltre che di una perizia esecutiva (soprattutto in sede live) impressionante.

"Grin" è un teschio vestito di velluto. È l'essenziale. È un quadro a cui siano stati strappati a forza i colori... tutti, tranne il nero. È un uomo cui siano stati asportati chirurgicamente i sentimenti... tutti, tranne la paranoia.

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