Quando due anni fa scrissi la recensione del predecessore di questo “Crystal Castles”, chiamato “Crystal Castles”, a sua volta predecessore di “Crystal Castles”, dei canadesi Crystal Castles ancora non avevo idea di cosa fosse la witch-house. Dovetti perciò brancolare nel buio con definizioni ardite per cercare di descrivere una musica dal suono che all'epoca appariva a me, ma non solo, alieno. A quanto pare il termine esisteva già, tuttavia io cominciai a sentirlo utilizzare con frequenza soltanto più tardi e in special modo con l'uscita, sempre nel 2010, di “King Night” dei Salem, a coronamento della legittimità di un nuovo filone di dark-edm che i Crystal Castles avevano, se non proprio fatto nascere, quantomento battezzato di fronte a un grande pubblico. Non è un caso che in una sorta di ironico tributo uno dei falsi leak di questo terzo album del duo che circolavano per l'internet fosse proprio un pacchetto .zip contenente il suddetto disco dei Salem.

Partiti da un dance-punk farcito di chiptune che, nel 2008, me li aveva fatti tanto amare, fu proprio questa evoluzione spettrale ed inquietante a farli illuminare nel buio di quella casa stregata dai riflettori della stampa, ammaliata anche dal fascino misterioso di Alice Glass, una delle tante sdilinquite chanteuses electro-punk (ruolo che oggi è ancora incarnato da personagge quali Caroline Martial dei Kap Bambino e Rebeka Warrior dei Sexy Sushi) che si è però reinventata come cinerea cerimoniera di moderne messe nere in cui, sotto il ritmo battente di campane sub-basse, la si poteva vedere “levitare” sopra le teste dei suoi adepti. Essendo stato testimone oculare di uno di questi eventi posso dire che l'esperienza, complice un'amplificazione vocale costantemente ultraeffettata, sia risultata per me letteralmente fantasmagorica, nel senso che mi è passata attraverso come uno spettro: non ne rammento nulla, un giro di vite talmente impalpabile che non potrei neanche afferrarlo e chiuderlo nella scatola nomata “deludente” o in quella recante l'etichetta “straordinario”.

In questo scenario ascensionale altamente suggestivo il duo canadese ha scelto di continuare il suo progetto di conversione consolidando le fila e la fedeltà dei suoi seguaci, promuovendo a profeti solo i più convinti, espellendo i moderati e tagliando i ponti a eretici emuli. La strada è quella del sacrificio, dell'esasperazione e dell'abnegazione a un suono ancor più freddo e scuro, una strada che porta fin su l'alta vetta del monte da cui rivelare l'unica verità della witch-house.

House più di nome, tuttavia, poiché di fatto è la techno a predominare in un disco nel quale spesse bordate di tastiera sono onnipresenti mentre il settore ritmico è funzionale e fondamentale ma poco interessante dal punto di vista espressivo. In particolare si alternano momenti rigorosamente regolari su tempi pari come in “Sad Eyes”, ballata dancepop, che pur nei suoi toni scuri, richiama certe melensaggini melodiche di fine anni '90, a soluzioni più moderne come la dubstep su frequenze catacombali di “Kerosene” o l'hip-hop prima phat in “Affection” poi glitchy in “Insulin” e persino handclappato in “Mercenary”. Influenti in questo caso, molto probabilmente sono state le nuove blackdevianze di Clams Casino (e il suo densissimo dark-hop), araabMUZIK (con il suo chimerico “trancehop”) e degli svedesi jj (autori di notevoli rimasticazioni dreamy-kitsch di vecchie pose gangsta).

Per quanto concerne l'atmosfera generale dell'opera ci troviamo davanti a un'omogeneità mai vista prima, l'aleggiare nebbioso di nere tastiere è perenne mentre la varietà dei timbri risulta volutamente limitata, e su tutto prevale il carattere dinamico-rituale del culto (specie nell'iniziale sirena che chiama a raccolta i fedeli nell'ammutolente “Plague”) contrapposto a quello etereo-contemplatorio cui è concesso solo un monito minaccioso eppur dolce nella conclusiva “Child I Will Hurt You”.

Implacabile è anche la voce della nostra sacerdotessa sempre più trasfigurata e inorganica che, unita al martellare profondo dei beats, si fa quasi mantra e certo è che l'ascoltatore non iniziato a tale tipo di setta allo scoccare della decima traccia, sopra l'ipnotica cassa dritta di "Telepath" potrebbe cominciare ad avere allucinazioni canticchiandoci strofe blasfeme come:

Do you ever feel like a plastic bag,
Drifting through the wind
Wanting to start again?
Do you ever feel, feel so paper thin
Like a house of cards,
One blow from caving in?
Do you ever feel already buried deep?
6 feet under screams but no one seems to hear a thing
Do you know that there's still a chance for you

'Cause there's a spark in you
You just gotta ignite the light, and let it shine
Just own the night like the 4th of July
'Cause baby you're a fiiirewoooooooooork
Come on, show 'em what you're worth
Make 'em go "Oh, oh, oh"
As you shoot across the sky-y-y

Ma questa non è un'opera per inesperti data la sua compattezza intransigente simile a quella d'un cubo nero: non c'è spazio per la giocosità del primo disco (l'unico trillio chiptunesco compare fugacemente in "Wrath of God") tantomeno per il delicato approccio nelle tenebre del secondo. Qui c'è solo l'impietosa meccanicità di riti già acquisiti cui ci si può solo abbandonare senza opporre resistenza (che anzi renderebbe tutto più doloroso) ascolto dopo ascolto. È una musica da ascoltare e scandire a ritmo di movimenti pelvici nel buio psichedelico di un luogo di culto notturno o di un giaciglio in cui espletare l'atto bestiale della copulazione, possibilmente in gruppo, preferibilmente interspecie.

Tutti gli infedeli, gli agnostici e gli scettici stiano alla larga.

P.S.: la copertina è presa da una toccante foto di Samuel Aranda che mostra una madre abbracciare il figlio ferito ed esposto a gas lacrimogeno durante una dimostrazione di protesta in Yemen.

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