Danny Cohen è davvero un personaggio stranissimo, eccentrico e indefinibile.
Pur avendo iniziato prestissimo con la musica, nel 1961 suonava già con il fratello Greg (poi bassista per Tom Waits e John Zorn), nella formazione punk dei Charleston Grotto, solo negli ultimi anni ha ripreso a dedicarsi alla musica in maniera continuativa.
Prima? Studente, pittore, scrittore, commesso, vagabondo, segretario, giornalista…

Dietro il suo ritorno alla musica c'è lo zampino di Mr. John Zorn, che intuendo l'immenso talento di Danny, decise di pubblicare per la sua Tzadik nel 1999, il disco che decreta il ritorno sulle scene del buon vecchio Cohen, ovvero "Museum Of Dannys".
Il disco, che in realtà raccoglie composizioni anche precedenti all'anno di pubblicazione, è un magico caleidoscopio, dove le idee, le suggestioni, le influenze assumono le forme più strampalate e scombinate, uno splendido contenitore di emozioni e generi musicali: pop, folk, jazz e blues sono tenuti assieme da un'attitudine ed un approccio sempre coerentemente "free", anticonvenzionale, quasi "punk", nel senso più ampio del termine.
La grande abilità di Danny, risiede in un approccio romantico alla musica, disilluso, quasi infantile e spensierato alla Daniel Johnston, per capirci, ma in egual misura anche profondamente colto e raffinato. Danny compone ed amalgama piccoli quadri naif, gemme rare dal sapore genuino e disilluso, che richiamano inevitabilmente all'amico Tom Waits, ma anche in alcuni cazi al Zappa più eccentrico, al blues demenziale e destrutturato di Captain Beefheart e di Syd Barrett e alla vena più esistenzialista di Nick Cave.

Il disco come detto si muove su più generi, mantenendo un filo diretto con la tradizione più genuinamente "pop", un pop che tuttavia prende ispirazione dal folk e dal blues della tradizione americana, ma anche dal jazz e dal rock sempre con uno stile compositivo sconquassatamene colto e marcatamente letterario, in cui riecheggiano i fantasmi californiani, alcolizzati, di John Fante e soprattutto Charles Bukowski.
La sua voce è il vero strumento che tiene organicamente unito l'album, una voce incredibilmente versatile e capace di falsetti stralunati e spiazzanti, ma anche di tracciare armonie e linee vocali che ricordano, come dicevo prima, il buon vecchio Beefheart e Tom Waits (splendida "Rainting in The Street", la zappiana "New Mexico", le sghembe "Justice Done" ed "Eternal Night").
Da sempre personificazione vivente dell'outsider americano, insofferente a qualsiasi tipo di etichetta, fuori da qualsiasi canone e soprattutto avulso a qualsiasi logica del business discografico, Danny Cohen è indubbiamente uno dei campioni dell'underground cantautoriale statunitense, uno dei migliori menestrelli degli ultimi anni, uno dei principi del folk urbano d'oltreoceano.

Altamente sconsigliato a chi non saprebbe accettare/apprezzare una canzone che termini con un rutto. Altamente consigliato a chi saprebbe accettare/apprezzare una canzone che inizi con un rutto.

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