Non possiamo fare finta di nulla, il meglio di Danzig solista l'abbiamo già ascoltato e continuiamo ad ascoltarlo nei suoi primi quattro dischi. Danzig è uno di quei personaggi che si amano o si odiano, nel bene e nel male e lui su questo ci sguazza. Dopo l'abbandono dei Misfits, entrati nel culto e nella storia del punk dei primi anni ottanta, seppe rinascere artisticamente prima creando i poco fortunati Samhain e quindi mettendo in piedi la corazzata Danzig che volò alta per 6 anni. Poi, il seguire le mode, costò molto caro. Il quinto album "Blackacidevil" del 1995, strizzò un pò troppo l'occhio all'industrial e le canzoni che ne uscirono persero quella magia e quel calore hard-blues che pregnavano i precedenti dischi, fu una delusione totale e l'inizio di una caduta di stile e popolarità che Danzig sembra ritrovare solo a sprazzi negli album che seguiranno.

"Dethred Sabaoth" esce esattamente sei anni dopo l'ultimo album di studio, quel "Circle of snakes" che sembrava, anche grazie all'aiuto di Tommy Victor, leader dei grandi Prong, indicare la retta via musicale da intraprendere. In mezzo un bel box, pensato per i fans con numerose canzoni mai pubblicate che forse era un preavviso di riavvicinamento a certe sonorità.
Sin dalla grafica e dai caratteri delle scritte, vi è un intento a guardare al passato più remoto targato Misfits. Il contenuto, però, è quanto di più vicino al primo Danzig si sia ascoltato negli ultimi quindici anni.
La produzione affidata allo stesso Danzig è volutamente grezza, sporca.
Ad accompagnarlo il solo Tommy Victor alle chitarre e basso e Johnny Kelly, batterista dei Type O Negative. Per il resto fa tutto mister "Anzalone" che si cimenta anche alla batteria in "Black Candy".
Il piacere è quello di ritrovare, inanzitutto quella voce, spesso paragonata ad un mix Presley-Morrison, profonda ed accattivante. La ritroviamo soprattutto in quei pezzi come Rebel Spirits e On a wicked night, dove i melodici arpeggi iniziali sono accompagnati dal pathos della sua voce per poi esplodere musicalmente e vocalmente.

Insomma, canzoni dalla piacevole aria di deja vù che perlomeno si avvicinano a composizioni da ricordare. Lontane dal diventare le nuove "Twist of Cain", "Mother" o "Anything" ma quantomeno lontane, anche, dalla ripetitività industriale del recente passato che comunque rimane in alcuni riff chitarristici di Victor come in "The Revengeful".
Danzig oscuro e malefico lo incontriamo nel blues-doom sabbathiano di "Night star hel" e nella finale "Left hand rise above".

Classico disco per i nostalgici del primo Danzig. Ora è da valutare quanto questo ritorno sia frutto dell'ispirazione o un atto dovuto, dopo l'ultimo decennio di declino vissuto dal nostro. Io mi porrei nella via di mezzo, in fondo il disco si lascia ascoltare e questo è già un buon passo in avanti... verso il passato.

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