Quesa opera verrà ricordata per essere stata la definitiva consacrazione artistica dell'ottima Natalie Portman, per averle dato (con ogni probabilità statistica) il suo primo premio Oscar e per averla proiettata nell'Olimpo delle star di Hollywood come una di quelle dive degli anni 50/60 che d'ora in avanti si potrà permettere di scegliere solo copioni impegnati e di spessore. Da un lato è giusto così, in effetti lei è strepitosa e si merita quello che le sta succedendo, ma altrettando giusto sarebbe anche ricordarsi di questo film per quello che in effetti è.

La premessa inevitabile, per chi scrive, è che non si tratta di un film facile da recensire senza riuscire a dire troppo della storia e senza far capire a chi legge l'esatto punto di vista con cui va affrontato. Perchè "Il cigno nero" non è la storia di una ballerina che interpreta Il Lago dei Cigni ma è la storia di una  "mente", è la storia di una discesa agli inferi della psiche umana senza mezzi termini o troppi colpi di scena. Noi siamo quello che facciamo e se quello che facciamo non è perfetto non siamo niente, non abbiamo altri motivi per calpestare questa terra e non raggiungeremo mai la serenità che ogni essere umano si merita; per fare quello che amiamo serve carattere, non serve solo essere bravi, serve essere determinati. Ma ognuno è quello che è, ed ognuno conosce i suoi limiti, ognuno sa che dentro di sè ci sono due persone e non sempre queste due metà dialogano in pace tra di loro. A volte  per volere e raggiungere la perfezione l'animo umano viene lacerato e non c'è razionalità che tenga. A volte il cigno bianco e il cigno nero non sono solo una metafora del bene e del male, ma semplicemente di ciò che si è e di ciò che, di sè, non si conosce ancora: a volte questa scoperta è troppo devastante, soprattutto per quelle anime candide, ancora infantili, ancora troppo poco mature per la vita. A volta questa scoperta è il più terribile degli incubi, atre volte è una patologia.

"Il cigno nero" è tutto questo, descritto con estrema violenza e phatos. Come se in "Taxi Driver", Scorsese ci avesse mostrato la follia del protagonista non "esternamente", ma direttamente con l'occhio interno della sua mente.

Aronofsky segue un iter comunque lineare e quello che vuole è portare lo spettatore nello stesso inferno della protagonista e per risulatare il più efficace possibile usa un linguaggio adeguato: usa la rappresentazione della follia e lo fa con tutti i mezzi che il cinema gli ha dato. La fotografia volutamente sporca e sgranata mette a disagio chi guarda e la deviazione nell'horror metafisico non risulta come una scelta fine a sè stessa ma come una necessità narrativa, tanto "sgradevole" quanto affascinante. Quello che più impressiona nella visione della pellicola è il contrasto tra la bellezza eterea dell'arte (le scene di ballo sono molto belle) e la crudezza (a volte davvero forte) di alcune sequenze, fino alla metamorfosi finale, in una delle scene meglio riuscite che, personalmente, ho visto negli ultimi anni. La liberazione del Cigno Nero dal cuore di Nina, fino alla fine arriva, e solo così, una volta libera dai suoi demoni, lei trova la perfezione.

Il più grande pregio di questo film è farci capire quanto il cinema di oggi abbia ancora tanto da dare, non per l'originalità in sè della storia , quanto per la straordinaria capacità di usare le immagini per narrare ciò che, in maniera diversa, non si sarebbe potuto raccontare.

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