Ricordo abbastanza chiaramente che il mio primo film visto al cinema fu La sirenetta nel 1990, ed in 21 anni di frequentazione di sale cittadine, multisala, cineforum, multiplex, cineteche e salette d'essai, molte volte mi sono alzato dalla poltroncina pensando che il film mi era piaciuto poco, abbastanza o molto, ma davvero rare sono state le volte in cui sono uscito dalla sala pervaso dalla meravigliosa certezza di aver visto un vero, reale capolavoro della storia del cinema, di quelli che resistono alla prova del tempo. Negli anni 2000, ad esempio, ricordo chiaramente Dolls di Takeshi Kitano e The Prestige di Christopher Nolan, ed in questi anni '10 appena iniziati posso già contare un titolo: Il cigno nero di Darren Aronofsky.

Come racconta Thomas/Vincent Cassel al corps de ballet all'inizio del film, «la storia la conosciamo tutti»: Odette viene trasformata in cigno da un mago, può tornare umana solo di notte e s'innamora ricambiata del principe Siegfried, ma la sua sosia malvagia Odile (figlia del mago) inganna il principe e lo fa suo; Siegfried si accorge dell'inganno e torna da Odette disperata, sconfigge il mago cattivo e vive felice e contento per sempre con il suo cigno bianco. Nella variazione proposta nel film ed ispirata a Il cigno di Camille Saint-Saëns, Odette decide di uccidersi alla scoperta che Siegfried l'ha abbandonata, «e nella morte trova la liberazione». Questa tragedia in forma di fiaba è il punto di partenza utilizzato da Cajkovskij prima e Aronosfky poi (il primo russo, il secondo di origine russa) per imbastire una storia sul tema del doppio: la candida Odette e la fosca Odile, i concetti opposti e trascendentali del bene e del male, dell'ingenuità e della malizia, sono la chiave usata dal musicista per esprimere un incredibile ventaglio di sensazioni ed emozioni come raramente la storia della musica ricorda, e dal regista per costruire il suo processo alla scoperta dei vari sé seguendo un percorso puramente psicanalitico. Quasi didascalico, da saggio freudiano il processo di consapevolezza sessuale intrapreso da Nina/Natalie Portman che, seguendo il modello di sviluppo a fasi, passa dalla fase orale (bacio con Thomas) alla quella anale (distacco dalla madre opprimente), alla fallica (masturbazione), alla latente (amicizia con Lilly/Mila Kunis) ed infine alla genitale (rapporto sessuale con Lilly). E quasi didascalico, da saggio kandinskijano l'uso continuativo dei colori bianco e nero giustapposti e rotti solo dalle due tonalità del rosa cipria per Nina e del marrone terra per Lilly (due colori della carne). Tutto ciò non può non rimandare a l'altro capolavoro di cristallina chiarezza freudiana che fu Psyco: la casa dei Bates ha una grande camera da letto per la madre (super-io), la stanzetta di Norman (io) e la cantina col segreto rimosso (inconscio). Ed in Psyco come ne Il cigno nero, peluche nella camera del protagonista, una madre opprimente, un bagno dove scorre del sangue ed una persona che ha dentro un altro sé. La chiarezza strutturale hitchcockiana è solo una delle molte citazioni del film: molte sono anche quelle visive, dai piani sequenza con telecamera alle spalle della protagonista come in Elephant ai volti terrorizzanti negli specchi come in Profondo rosso, Il cigno nero è anche un catalogo di motivi visivi del passato nonché creatore di una nuova angoscia legata alle unghia, alla pelle ed a tanti momenti di sanguinolenza minima e ribrezzo massimo; un'atmosfera di angoscia continua sorretta dall'ottima interpretazione del cast e di Natalie Portman in particolare, eccellente. Capitolo a parte merita la musica, poi: il britannico Clint Mansell, abituale collaboratore di Aronofsky, ha estratto dalla geniale e quanto mai toccante partitura di Cajkovskij una colonna sonora in cui rispuntano continuamente sottili ricordi del balletto originale, che però non si sente mai fino alla fine, quando finalmente Nina debutta nel suo ruolo e si svolge uno dei finali più emozionanti, empatici, potenti e belli che il cinema, recente e non, ricordi. Il cigno nero è un capolavoro basato su un capolavoro.

Se ha ragione Oscar Wilde a dire nel suo De profundis che tutta la vita e l'opera di un uomo viene prevista ed anticipata da egli stesso prima ancora che si compia, se cioè è vero che ognuno di noi non fa altro che vivere e lavorare sempre sulle stesse idee forti, se ognuno di noi preso come artista non fa altro che ripetere sempre sé stesso con filtri e modalità diverse e sempre più raffinate (o come si dice per i registi, se fanno sempre lo stesso film), allora Aronofsky, recuperando gli elementi psicologici dei suoi precedenti film e calandoli in un contesto di enorme bellezza com'è il mondo del balletto, raggiunge con questo film un livello così alto, così tendente alla perfezione da rappresentare un manifesto per i temi universali della follia, dell'ossessione, della monomania per raggiungere uno scopo più alto della propria portata.

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