L'uscita di un nuovo album solista di Dave Gahan è sempre oggetto di discussione aldilà del contenuto strettamente musicale: e questo "Hourglass" non fa eccezione. Gahan è vocalist e front-man di una delle più longeve e stimate cult-band del mondo, il che già basterebbe ad attirare l'attenzione; ma ci sono motivazioni meno conclamate che tengono sulle spine soprattutto i fans, a cominciare dall'annosa escalation competetiva tra il suddetto e il vero motore artistico dei Depeche Mode (Martin L. Gore). Motivazioni che hanno sempre fomentato una serie di dubbi e di cautele (spesso legittime) sulla reale validità intrinseca dell'operazione "album solista" che Gahan si ostina a perseguire per ottenere riconoscimenti e consacrazioni altrimenti legate alla sua band.

Il precedente "Papermonsters" era stato accolto con entusiasmo da molti, con tiepida benevolenza da alcuni e con una smorfia dai critici più imparziali, accorti nel cogliere in quel lavoro solista un'atmosfera di confronto già debole in partenza. Un disco che aveva venduto bene e ovviamente più del parallelo "Counterfeits 2" del collega Gore, il quale aveva optato per una produzione piuttosto sperimentale di cover e non si era preoccupato certo di dover reggere l'ipotetica sfida con l'amico-rivale. Un disco che suonava troppo Depeche laddove ci saremmo attesi qualcosa di più personale, tuttavia troppo personale laddove la voce di Gahan dà il meglio di sè e invece va a perdersi in uno stile intimista dalle sfumature romantiche, che smorza la sua carica beffarda e lo rende più simile ad uno chansonnier che a una rockstar del suo calibro.

Nell'arco di qualche anno, comunque, il ribelle e cazzuto Dave ha capito che lo zoccolo duro su cui doveva insistere era solo uno e che solo mantenendo intatto il rapporto di fiducia con i fans dei Depeche Mode poteva consolidare la sua autorevolezza di solista.

"Hourglass" è un'opera che suona indubbiamente più vicina agli ultimi lavori del gruppo - specialmente a "Playing the Angel" - e che si impernia su un'interpretazione più elaborata e su atmosfere più consone alla personalità del suo autore. Un'opera che gode di una produzione attenta e raffinata, piena di suoni accattivanti e di arrangiamenti al passo coi tempi. Un'opera che riesce a non annoiare anche quando si nota una sostanziale assenza di buone idee.

Perchè - diciamolo chiaro - Gahan non ha una scrittura geniale ed emozionante come quella di Gore, a cui è debitore pur nel tentativo di svincolarsene. Le sue canzoni senza quei suoni e quegli arrangiamenti non avrebbero una risonanza ispirata come emerge dal disco finito; e anzi, posso dire che almeno la metà dei brani di "Hourglass" trova la sua corposità musicale proprio nell'originalità degli arrangiamenti, che tra echi elettronici, reminiscenze trip-hop e tocchi semi-industrial riescono a colmare la distanza tra un buon album solista di Dave e un album medio dei Depeche.

Gahan sceglie di non iniziare col botto questo lavoro e punta su "Saw Something", un pezzo rilassato e malinconicamente onirico, per fare strada all'ascoltatore. Sposta dunque il pezzo più cattivo e sperimentale al terzo posto nella tracklist e cerca di tenere in crescendo la tensione prima della parte centrale, a mio avviso la più debole. Dopo le aperture fluide di "Saw Something" - che gode di un bell'assolo di chitarra sul finale - prosegue sulla falsariga con "Kingdom", mediando il Gahan-style più collaudato con sonorità anni '80 modernizzate e un ritornello godibile... non a caso finito a fare da primo singolo.

Con "Deeper and Deeper" si consuma subito l'apice creativo e aggressivo del disco, che miscela ritmiche ipnotiche e loop sporchi ad una voce disperata, memore dei momenti peggiori della vita di questo ragazzo dannatamente fortunato e probabilmente imparentato con i felini (visto che sembra avere sette vite). Bel pezzo, più adatto ai fans senza paraocchi e all'ascoltatore senza preconcetti che a coloro convinti che sia "Black Celebration" l'esempio più alto della carriera di Gahan e soci.

Dalla quarta traccia alla penultima la tensione cala; e se si fa eccezione per "Use You", bisogna aspettare la splendida "A Little Lie" per tirare il fiato e risvegliare l'attenzione già scemata. Di "Use You" c'è da dire che poteva essere ragionevolmente un brano di Gore rimaneggiato da Dave, perchè ha un piglio assai vicino alle atmosfere di "Songs of Faith and Devotion" con un'interpretazione vocale graffiante e inquietante; e il sottofondo ritmico strizza l'occhio a cose già sentite della band, per quanto decisamente più elettronico.

Poi "A Little Lie", incalzata da un meravoglioso riff di chitarra che suona come quelle di Martin Gore e ne ha lo spessore nostalgico e tragico seza sembrare un pezzo scopiazzato. Qui Gahan cattura e convince, con una ballad coinvolgente e prodotta alla perfezione. Tutto sommato più evidente e valorizzata se fosse stata messa in fondo alla tracklist, al posto di "Down", che inizia ingannevolmente come una cover sintetica di "Creep" dei Radiohead e non riesce a decollare per chiudere degnamente l'album.

Ma si sa che David Gahan ha una vocazione da crooner e che in buona sostanza cerca di confermare al mondo che non è matto e incosciente come lo si dipinge e come la sua vita privata sembra mostrare. La sua vena romantica e disillusa ha bisogno di esprimersi con ballad senza eccessi, che sappiano sottolineare il profilo positivo dell'antieroe e lascino l'impressione di un uomo che ha visto la morte in faccia e conserva nonostante ciò un sorriso sardonico di ragazzo con un cuore così.

Che poi è proprio così che penso sia Gahan: un cazzeggione che sa commuoversi senza ipocrisia. Il che rende ancor più arduo concigliare le aspettative del pubblico, la sua volontà di imporsi come autore, le sue ispirazioni autobiografiche, le mode del momento. Che sia per questo che "Hourglass" è un album discreto che non resterà memorabile, se non nel cuore di Dave stesso?

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