Direttamente da Rock Island, Illinois, date il benvenuto a David Ackles!”. Con una pausa tra il nome e il cognome, immagino l’urlo del presentatore che precede l’entrata trionfale sul palco di Ackles, che si siede al pianoforte e parte intonando solennemente un qualche pezzo da lui scritto, con trasporto e totale immersione. Come nei film, quelli nostalgici, quelli che generano una strana sensazione nelle viscere, quei film dove il personaggio è un grande, è davvero grande, ma altrettanto grande è la sua inadeguatezza, il suo senso di alienazione negli spazi ampi, davanti a folle più o meno oceaniche. Un artista amato sì, ma non realmente compreso.
In parte, questo mi piacerebbe fosse successo ad Ackles. Ciò che accadde realmente? Totale indifferenza da parte del pubblico. Come diceva Nick Drake in “I Was Born to Love Magic”: “I was born to love no one/No one to love me”, probabilmente il Signor David era destinato a non essere amato, eppure cantava, lui, che “basta l’amore” (in senso lato, “l’amore è tutto ciò che conta”). Fu, effettivamente, apprezzato da alcuni, fu tentato un lancio, più di una voce girò a suo favore, ma non bastò. Nessun serio riscontro commerciale.

Decenni dopo il suo tempo, è strano, tragicomico, che l’arte di Ackles sia apprezzata da artisti come Phil Collins (che ha decretato “Down River” come una delle sue canzoni preferite in assoluto), da Elvis Costello (che si è domandato, a grande voce, quale fosse il motivo per cui le canzoni di David non si erano tramutate in standard classici, da cantare e da avere come exempla), ed Elton John, il cui paroliere Bernie Taupin ha prodotto il disco di cui vi parlo oggi: “American Gothic”.

Vi confesso che l’espressione “american gothic” mi ha sempre affascinato, ma soprattutto inquietato. Cercandola su Internet anni fa, scoprii un film horror del 1988 – che aveva, tra i suoi interpreti, Rod Steiger – che non potrò mai dimenticare. Ho avuto gli incubi per più di una notte. Qualche tempo dopo, comprai “L’Antologia di Spoon River” di E. L. Masters, edizione Mondadori, parte dei “Classici Moderni”, con una copertina che dire inquietante è poco. Si tratta del famoso dipinto a olio di Grant Wood, risalente al 1930, raffigurante un agricoltore che regge un forcone, e sua figlia, che si trovano di fronte a una casa di legno in stile rurale. Vado a vedere, sul retro del libro, l’autore della copertina, e ne scopro sia l’artista che il titolo: “American Gothic” (Gotico Americano).

Il mio percorso di conoscenza e approfondimento dell’argomento si chiude con l’ “American Gothic” sonoro, concepito da uno degli artisti a cui più si addicono il termine “cult” e l’espressione “riscoperto troppo tardi”.
Si tratta del terzo lavoro discografico dell’artista di Rock Island, che era stato personaggio negli anni ’40, come attore bambino, di diversi film della serie “Rusty”.
Promosso come il “Sgt. Pepper’s” del folk, etichettato come “classico” dal Melody Maker, “American Gothic” esce nel Luglio del ’72, lo stesso anno di “Pink Moon” del già citato Nick Drake, uscito qualche mese prima. In comune i due album hanno l’insuccesso di vendite. Entrambi gli artisti furono supportati da amici e addetti ai lavori (Elton John aveva affiancato anche Nick per un periodo) ma forse, per la loro personalità difficile, che li portava a esibirsi raramente in pubblico, si diedero la zappa sui piedi.

Undici canzoni, registrate a Londra, vanno a formare un ideale concerto-spettacolo di Broadway, sulle ambiguità dietro alla società e alla cultura americane, raccontate dalla voce di un Ackles che sembra premonire, sul piano cantautoriale, un Tom Waits, e che sembra prendere qualcosa da Randy Newman, e ancora più indietro, dal teatro del duo Brecht/Weill.
Nonostante vi sia dell’ironia e una certa volontà di non prendersi sul serio, “American Gothic” ha in sé una forte epicità, data, in buona parte, dagli arrangiamenti di Robert Kirby (che aveva collaborato con l’onnipresente Nick Drake, in “Bryter Layter” due anni prima), e da un lirismo che avvicina Ackles a Bruce Springsteen, che si presenterà al mondo un anno dopo, salutando da Asbury Park.
I momenti alti di questo capolavoro, che, a dir la verità, è assai uniforme a livello qualitativo, sono la titletrack, “Love’s Enough”, Oh, California!”, “Family Band”, “Midnight Carousel” e la lunga “Montana Song”.

A differenza di Nick Drake e di altri afflitti dalla “bad luck”, David non è morto prima di una certa età, anche se non proprio veneranda: stroncato da un cancro ai polmoni, nel 1999, a 62 anni, in California, Ackles, nonostante l’apprezzamento degli artisti sopraelencati, risulta essere, tutt’oggi, una figura evanescente, misteriosa, difficilmente decifrabile. Colpa anche della poca attenzione discografica ricevuta post-mortem (si pensi che l’unico album rimasterizzato da poco è la sua ultima fatica, “Five and Dime”, che causò, nel ’73, la rottura tra l’artista e la Columbia, alla quale seguì il rifiuto di Ackles di avere a che fare nuovamente con una casa discografica).

Ritiratosi a vita privata, David si dedicò alla scrittura di sceneggiature per la televisione e per il teatro. Nel 1981 fu vittima di un incidente automobilistico, dal quale uscì con un braccio seriamente danneggiato, e dopo il quale fu costretto alla sedia a rotelle, per diversi mesi.

Voto: 10/10

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