E' indubbio che David Ackles abbia rappresentato un'anomalia per la sua epoca. Lo si nota fin dall'omonimo disco d'esordio: ogni canzone è marchiata da un baritono che sussura con la mestizia di un condannato a morte (vedasi "What a happy day", insomma si osserva un titolo simile, e ci si aspetta una canzone cantata con entusiasmo, e invece no...), accompagnata da un organo solenne, un pianoforte che si districa tra partiture non virtuosistiche, ma neanche banali, una chitarra elettrica che anela alla dolcezza più che alla rudezza (esemplare su ciò l'assolo etereo che "sublima" il finale della splendida "Down River") ed infine, concernente una storia che, concentrandosi sulla quotidianeità, rivela una profondità non comune.

Purtroppo, non sempre l'unicità "paga". Una personalità musicale differente dalla moltitudine merita di essere sviscerata, l'ascoltatore deve "avventurarsi" nelle sue canzoni, coglierne i dettagli e le sfumature. Purtroppo, non tutti quelli che ascoltano musica hanno voglia di "approfondire", si approcciano alle canzoni come se fossero prodotti da consumare in fretta e "alla buona". Il bravo Ackles ha sempre scritto canzoni eclettiche, profonde ed "elegiache" ( a volte, capaci anche di essere ironiche), e questo, ovviamente, non ha "pagato". E' uno di quelli che avranno venduto poche centinaia di dischi in vita, componendo oggettivamente buona musica, e che aspettano ancora di essere riscoperti. Ackles non sarà mai conosciuto dal grande pubblico, ma, se il destino gli sarà clemente, almeno post-mortem (eh si, è deceduto nel 2001 per un cancro), lo farà rivalutare ad un cospico numero di orecchi che amano la musica d'autore più nobile.Tale eventualità , cioè quella di essere riportati alla luce dopo decenni d'ombra, è una cosa che non è accaduta raramente, quindi spero accada anche al signor Ackles. Nel frattempo cerco di dare un piccolo contributo affinchè ciò possa avvenire.

Il cantautore americano in questione vanta una carriera breve, ma densa: quattro dischi, il primo pubblicato nel 1968 ( a trentuno anni, altra peculiarità in un'epoca piena di divi, ma anche di anti-divi che, ancor prima di tagliare il traguardo della terza decade di vita, ci avevano già rimpinzati di perle), l'ultimo nel 1973. Ognuno di essi, a mio giudizo, è come minimo ottimo. A far calare il sipario sul suo percorso professionale da musicista è l'ostilità verso l'industria discografica, e di certo non il mancato successo commerciale (cosa a cui la sua musica non mai ha ambito).

Il miglior lascito è rappresentato, indubbiamente, da "American Gothic", pubblicato nel 1972. Chi lo ha ascoltato sa che è un capolavoro e sa che rappresenta un episodio non trascurabile nell'oceano della musica americana del Novecento. Le melodie sono splendide, gli arrangiamenti si dispiegano raffinati e orchestrali (un' informazione: l'orchestra è diretta da Robert Kirby, un tizio che ha perfezionato con la sua abilità le canzoni del disco d'esordio di ... basta, i più informati sanno a chi e a cosa mi riferisco!) e strizzano l'occhio a Kurt Weill (il nostro, che ha smesso di pubblicare dischi, ma non di continuare a coltivare la passione per la musica in privato, in vecchiaia dirigerà "L'opera da tre soldi" in qualche teatro californiano), ai maestri americani della "canzone colta" ( Gershwin, Carmichael,Berlin ecc.), ma anche al folk, al jazz e al gospel, e i testi meritano, almeno, un'occhiata.

Già la title-track è un gioiello: il pianoforte che "mena le danze", poi si insinuano i fiati e, infine, la voce declamante di Ackles che ci conduce nei meandri dell'infelicità di una coppia sposata (per esattezza, si parla di una moglie che riempie di tradimenti il marito contadino, il quale deve sopportare in silenzio tutto questo, "pregando Dio di sopravvivere un'altra settimana"). Poi viene il turno di una meravigliosa ballata pianistica: "Love's Enough", sulla provvisorietà dell'amore. A mio parere, è un altro capolavoro nel capolavoro. Sulla stessa lunghezza d'onda, imperniata di romanticismo e rimpianti, si trova "One Night Stand". Decisamente più cupa e movimentata è "Ballad of the ship state". Altro ottimo episodio è "Oh California" (che ben figurerebbe nel repertorio di Randy Newman, altro maestro un pò trascurato), trattante il ritorno di un individuo verso l'assolata California, dopo aver girovagato per tutta la nazione. Basta un ascolto per non dimenticarsi del finale strumentale, un pò solenne, un pò umoristico. Altro pezzo da novanta dell'opera è "Another Friday Night", storia di chi spera di redimersi dalla noia quotidiana,credendo, nonostante tutto, nei propri sogni. Musicalmente parlando, ci si imbatte prima in un incipit delicatissimo, basato sul dolcissimo piano e i "sospiri" delle trombe, poi nella voce sussurrata di Ackles la quale, però, nel tenue impennarsi della "cornice strumentale" durante il ritornello, acquista vigore. Dimostrazione d'eclettismo è l'autobiografico gospel di "Family Band", dove il narratore cerca speranza nei ricordi del passato remoto (e così si scopre che Ackles è cresciuto in una famiglia di soli musicisti, educato alla fede cristiana). A seguire due episodi dove la musica, sempre camaleontica nell'assecondare gli umori dei protagonisti delle canzoni, fa da sfondo a testi crudi e amari: "Midnight Carousel" e "Blues For Billy Whitecloud", quest'ultima su un indiano che piazza una bomba all'interno della sua ex scuola superiore. Elegia pensierosa e assorta è "Waiting for the moving van". Il compito di chiudere un disco che rasenta la perfezione spetta a "Montana Song", altra perla, che è l'episodio di maggior durata e che rappresenta la "sintesi" di tutto ciò che si è ascoltato e letto in precedenza: umorismo e amarezza, rimpianto e dolcezza, speranza e delusione, perdita e scoperta,resistenza e crollo e così via.

Qualcuno mi biasimerà per l'eccessiva durata dello scritto, e per questo chiedo venia. Tuttavia, mi è sembrato giusto dar molto spazio ad un umile e talentuoso cantautore statunitense che ha ricevuto meno di quello che ha dato.



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