A fine primo tempo la signora davanti a noi si gira per cercare il conforto di un'opinione altrui. “Non pensavo fosse così cruento” dice, ma è chiaro che quell’aggettivo sta lì al posto di tanti altri che potrebbero dire molto di più.
“Cuore selvaggio” compie 35 anni e siamo in un cinema all'aperto a rivederlo tutti insieme. Le sedie sono in gran parte occupate, la tensione è massima. Non ho mai recensito Lynch e mi piace avvicinarmi al suo cinema con gli occhi del fanciullino, senza cercare riferimenti critici esterni o usare parole già usate da qualcun altro. Cerco di riordinare le idee.
I generi svuotati
Uscito tra “Velluto Blu” e “Twin Peaks”, mi pare che il film prenda le mosse da un'idea deformante dei generi, una visione allucinata delle vicende e della realtà. I due innamorati (Laura Dern e Nicolas Cage) sono esageratamente sopra le righe, caricaturali nel loro comunicare, fare l'amore, ballare, chiacchierare. A volte gli attori non sembrano nemmeno recitare, tanto è alienante (e a volte insensato) quello che dicono.
Dunque il dramma romantico si svuota di credibilità, sembra una farsa. Ma anche l'intrigo “poliziesco” si avvita su se stesso. C'è un detective (Johnnie Farragut) amante della madre di Lula e un secondo amante ben più truce, che oltre a cercare la figlia della donna, cerca il primo indagatore e rivale in amore per ucciderlo. E’ il criminale Marcelles Santos. Due forze che confliggono invece di collaborare.
Più avanti nella storia si mostra anche il genere crime destrutturato. Il delirante Bobby Perù (uno spettacolare Willem Dafoe) coinvolge Sailor in una sgangherata rapina non priva di ombre, che degenera in un bagno di sangue splatter.
I dettagli ributtanti
Ed è qui che entra in gioco il lato più disturbante dell’estetica lynchana. Il mondo è osservato con occhio morboso, un cattivo gusto imperante che ci viene propinato forse solo per disturbarci, ma più probabilmente per portare avanti una visione duplice dell’esistenza: quella esteriore, retorica, piatta, e quella malata, deformante, grottesca. Un mondo dal “cuore selvaggio” che nasconde (ma non troppo) il suo orrore più insensato e contraddittorio, una cancrena che intacca i tessuti apparentemente sani della società.
E allora ecco il cugino Dell che si mette gli scarafaggi dove non batte il sole, la madre di Lula che nel suo delirio si dipinge tutta di rosso con il rossetto, i rituali tribali e assurdi dei killer di Santos, il distacco dalla realtà della ragazza dell’incidente. C’è un grande amore per il sangue che cola lento, dipinge geometrie sui volti, pozze per terra. Non è un sangue normale, è morboso, come un simbolo, un’epifania della visione orrorifica di Lynch.
Un linguaggio che falsifica
Un altro aspetto importante riguarda l’uso delle parole. Le affermazioni dei personaggi sono messe costantemente in discussione, le verità sono molteplici e sfrangiate. Ad esempio, le narrazioni di Lula spesso indulgono in grandi ingenuità, mentre sua madre Marietta continua a fingere con i due amanti, ma non è chiaro nemmeno a noi spettatori quale sia la sua vera volontà, quale preferisca dei due. Si muove come un pendolo e non sa decidere, è in balia di se stessa. Per non parlare di Sailor, che costruisce un mondo fittizio e reticente per tenersi Lula, un’identità ben lontana da quella reale. I suoi crimini sono facilmente omessi, e la ragazza s’illude della sua sincerità, non si fa molte domande.
Poi c’è il linguaggio dell’eros: quello è potente, poetico, esatto. Il “cazzo tenero” dell’amante che sembra parlare alla protagonista, quello minaccioso (un cobra) di Bobby Perù, che però molesta Lula soprattutto con le parole, la violenza del linguaggio che prevarica e stupra.
Il road movie
La componente essenziale del film, quella del viaggio su strada, è in realtà svuotata e reinventata. Le sequenze in automobile non vanno a costruire una trama articolata, sono dei semplici contenitori. Il viaggio e l’inseguimento non hanno alcunché di intrigante, anzi, finiscono quasi per annoiare (volutamente). Il vero viaggio è mentale, si gioca tutto nel percorso di crescita della protagonista e in quello di involuzione del suo amante. Per il resto, i luoghi contano poco, l’America non è mai stata così astratta, spettrale, inconsistente. Chi indaga non ha nessuna chance di prendere gli amanti, al massimo Farragut e Santos possono ostacolarsi a vicenda, tra i continui ripensamenti della sclerotica madre Marietta.
Lula
Infine, ecco un personaggio costruito magnificamente attraverso visioni e ricordi non sempre veritieri o coerenti. Le immagini che appaiono per rappresentare le sue memorie sono profondamente soggettive, parziali, spesso insensate. Dalla morte di suo padre alle violenze subite, dal cugino (le idee cattive che la tormentano, ma lei sembra riderci su). Una donna che sembra esuberante nei modi e nel vestiario, ma che si mostra infine nella sua fragilità e buona fede, unico essere umano decente in un mondo di mostri, bugiardi, puttanieri, assassini.
Alla fine, lei da sola se la cava molto meglio, ma non per questo volta le spalle all’amore, a prescindere dalla bontà d’animo (tutta da valutare) di quell’uomo brutto di cui s’è perdutamente innamorata.
E allora eccolo, Nicolas Cage spettinato, con la sua giacca di serpente che finalmente canta per Lula “Love Me Tender”, abbracciandola in piedi sul cofano dell’automobile, in mezzo al traffico strombazzante. E, intanto, manda un ringraziamento alla Fata Buona, che lo ha fatto ravvedere.
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Altre recensioni
Di Wendysonoacasa
Questo è un film senza mezze misure, o lo si ama o lo si odia.
Fa ridere, mette i brividi, è schoccante, è Lynch al cubo.
Di LKQ
David Lynch non è tanto sfuggente quanto enigmatico: un bersaglio mobile per chi lo intervista.
È così emozionante quando ci si innamora delle idee. In un certo senso ci si perde. E perdersi è meraviglioso.