Su Blemish è stato detto tanto.
Che è un lavoro di difficile comprensione se non per gli estimatori del genere o per coloro che, essendo fan del maestro e seguendolo fin dall’inizio, possono comprenderne la reale ascesa musicale; che la scelta di autoprodursi sia stata dettata dalla decisione di rendersi libero dai vincoli imposti dalle case discografiche; che l’aver lavorato da solo sia stata la normale evoluzione di uno spirito oramai maturo e adulto e bla bla bla, bla bla bla e bla bla bla.

Fandonie.
Blemish non è nient’altro che un puro esercizio di stile per un artista che oramai ama a tal punto ascoltare la propria voce da perdersi, tanto per fare un esempio, per 13 interminabili minuti in nenie ipnotiche e insopportabili con lo stesso tono monocorde, scusate minimalista, che sarebbe il carattere contraddistintivo dell’opera stessa. Tutto il resto non differisce di molto.
Va bene, nessuno di noi si aspettava di ritrovare la genialità malinconica di Nightporter, la freschezza di Answered Prayers, primo lavoro da solista datato 1986, o l’esaltante complessità di Brightness Falls e Darshan, ma a quei tempi, parliamo del 1993, lavorava ancora con Robert Fripp, e scusate se è poco. Sicuramente sapevamo che la sublimità di Ryuichi Sakamoto era andata definitivamente persa con Heart Beat e che nemmeno il duo Alesini/Andreoni sarebbe riuscito a collaborare ancora con lui dopo l’exploit di Marco Polo I, ma quando è troppo è troppo.

Diciamo le cose come stanno: David Sylvian non ha un ego debordante, ha un ego che tracima da ogni dove e che purtroppo ha definitivamente contaminato anche il suo essere artista. David Sylvian infatti non è più un artista, è un autoreferenzialista che si autocita, fino a fagocitarsi completamente, per essere il solo e unico sole splendente nella vuota galassia che oramai lo circonda.

Qualche segnale c’era stato fin dall’inizio. Senza voler affondare troppo il coltello ricordando i Japan, in un non lontano 1983 Ryuichi Sakamoto compose la splendida Forbidden Colours che divenne la colonna sonora del famosissimo film Furyo, interpretato da un eccezionale, decadente e raffinato Ryuichi Sakamoto stesso e da un altrettanto sentimentale e virile David Bowie. Avete mai visto i videoclip di Sylvian? Bene, ci sono tutti: Sakamoto, Takeshi Kitano e anche Tom Conti ma, ops, chissà perché, David Bowie non compare eppure, quel testo e quel film, lo consacrarono definitivamente come interprete di fama mondiale. Per non commentare lo scempio fatto su The Golden Way, nel doppio Everything and Nothing, perché sua egocentricità Sylvian ha pensato bene di eliminare l’apporto di Alesini per reinterpretarla in una chiave più appropriata, Sylviana appunto, e renderla una roba piatta in cui la voce di sua egomaestà possa evidenziarsi meglio. Persino Hector Zazou ha avuto modo di dichiarare che, per Sahara Blue 1992, dopo essersi messi in sala di registrazione e aver lavorato insieme “David Sylvian ha voluto che le canzoni cantate da lui non figurassero nella versione definitiva (ne esiste un’altra dove ne canta due). Non mi ha mai spiegato il motivo di questa scelta e questo mi ha un po’ ferito…”.

Noi possiamo provare a immaginarlo e, se Hector Zazou lo desiderasse, possiamo anche provare a spiegarglielo.

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