Davide Van De Sfroos sa come si canta, come si scrive e come si fanno gli arrangiamenti. Non c’è mai, in nessun disco dell’opera del cantautore laghèe, una canzone che lasci con l’amaro in bocca, quella sensazione di non finito o non bello o di pessimo gusto che tante volte si sente nel Guccini anni 70-80, nel Dylan male orchestrato, in Claudio Lolli e via discorrendo.

La musica, il folk di “Brèva e Tivàn” tira all’America, al Mississippi, e il Davide ci approderà con Akuaduulza. L’album parte con il country e subito “Foemm e Prufoemm” mette in chiaro le cose, cioè i punti fermi del disco: il Bar inteso come emisfero a parte, la Nocc (notte) come corona per il tutto e i Fantasmi (pronunciato “Fantashmi”) a tener vivi ricordi e memoria dei personaggi. Nel disco sono i personaggi del lago che raccontano, sono Tugnèn e Orzowey, sono Mario Musca e l’uomo in canottiera, e trovano spazio la vita del Genesio e le fughe dei Cau Boi. Sono viaggi nell’infinitamente piccolo delle storie di provincia, comuni a tutti quelli che abitano lontano dalle città. E poi ci sono gli uomini che le fanno, queste storie, e quelli che le raccontano. Davide sa farlo, sa dipingere il suo mondo con una perizia e un gusto unico, paragonabile al Guccini ritrattista (“Il Frate”, “Il Pensionato” e via così). “La Balera” è musicalmente perfetta, ha un testo simpaticissimo ed entra subito in testa. “Il figlio del Guglielmo Tell” e “Il duello” sono la parte teatro-canzone dell’album, oltre che due ottimi e spassosi pezzi. “La Balada del Genesio”, “Pulènta e galèna frègia”, “Ninnananna del contrabbandiere” e “Brèva e Tivàn” fanno invece la parte poetica, esistenzialista e più convincente del disco. Tutti grandissimi pezzi, all’altezza dei grandi cantautori italiani e arrangiati con gusto. “La nocc” e “Cauboi” stanno un gradino sotto, ma sono ottimi pezzi e dal vivo ne guadagnano molto, specie “Cauboi”, che è l’inno dei fan nonché il ritratto del laghèe, che se ne va a Milano e a Lugano per tornare al lavoro nel “lunedè che el par un cucudrill”. “Hoka Hey” è resa male, troppo reggae e non regge: dal vivo è un’altra cosa. “Cyberfolk” è irritante, ma al vivo si trascina per 15 minuti a suon di improvvisazioni e fa divertire. Sul disco è un pezzo da dimenticare.

Grande album, non ancora maturo ma con moltissime perle e una lingua sua in un mondo che Van De Sfroos sta creando. Il dialetto del Lago di Como non è un limite. Apre un ventaglio di orizzonti e varianti senza fine. Non è solo un espediente per fare dello spettacolo. “Brèva e Tivàn” perde significato senza la sua lingua. Non è solo fisarmonica, questo album: c’è della poesia.

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