Povero "All Pigs Must Die"... da molti considerato come il primo vero passo falso della Morte in Giugno, non è secondo me così malaccio come lo si vuol dipingere. Meriterebbe d'essere acquistato solo per la copertina, che ritrae lo stesso Douglas P. con tanto di maschera e mimetica in una casetta delle bambole dalle rosa pareti, nell'atto di sgozzare, coltellone alla mano, un porcellino di pezza!

Certo, aggiungo io, è davvero incredibile come questo artista, fanaticamente idolatrato da un lato e sprezzantemente avversato dall'altro, dimostri di essere il primo a non prendersi sul serio, andando a sbeffeggiare proprio quell'apparato coreografico che ha tanto concorso, nel bene e nel male, alla creazione del suo stesso mito. Un grande!

Se dunque si fa apprezzare lo slancio ironico, di certo è innegabile che ci troviamo innanzi ad un'opera non troppo ispirata, nata più per gioco che per una vera urgenza artistica. D'altra parte, il Douglas P. del 2001 non è più ragazzino fragile e complessato, piuttosto ci appare come un pacioso uomo di mezza età che ha messo su qualche chilo di troppo e pare aver trovato la pace interiore nella oramai consolidata dimensione australiana, fra canguri, koala e l'amico Boyd Rice che lo va a trovare di tanto in tanto. E proprio in questo frangente il buon Douglas decide che è il momento giusto per togliersi qualche sassolino dalle scarpe, di regolare certi conti con il passato... sì, conti, conti come li intende il vostro commercialista, poiché questo "All Pigs Must Die" non è altro che il pretesto per andare ad infamare quei vili porci bastardi attaccati al soldo della World Serpent (la sua vecchia casa discografica), con i quali è evidentemente aperto un contenzioso danaroso. Non certo il massimo della poesia. Svelato così l'arcano di chi siano i maiali di cui si parla nel titolo, non ci resta che affrontare l'ambito strettamente musicale.

L'album si struttura in due parti perfettamente distinte e speculari: una folk ed una noise. Nel primo lato viene recuperata la formula acustica, momentaneamente accantonata con l'accoppiata "Take Care and Control" e "Operation: Hummingbird" (nati dalla collaborazione con Albin Julius, che non di poco ha forzato il sound della Morte in Giugno verso i lidi per niente rassicuranti dell'industrial marziale e wagneriano dei suoi Der Blutharsch). A fare invece la gioia dei nostalgici, troviamo qui sei tracce in tipico stile "But, What Ends/Rose Clouds", dai toni generalmente più rilassati ed a tratti allegroni, che certamente susciteranno la delusione degli amanti delle atmosfere tese e decadenti. Brani che si sorreggono sugli oramai arcinoti accordi di chitarra e sulla voce oscura e monolitica di Douglas, qui impreziositi dal flauto e dalla fisarmonica di Andreas Ritter (dei Forseti), che accentua non di poco l'elemento folk/popolare, andando a conferire ai brani un certo sapore d'oltralpe. Da menzionare anche la tromba di Campbell Finley, già presente in "But, What Ends..." e "Rose Clouds... " e il vocione di Boyd Rice, chiamato ad introdurre di tanto in tanto qualche brano, come per esempio succede in "We Sayd Destroy II", che si apre con la parodia della favola dei tre porcellini, tema ricorrente dell'intera opera.

Non male, direi: una ventina di minuti che scorrono assai bene, dove tutto sommato Douglas sembra riciclarsi meno che altrove, accentuando il suo lato ironico e grottesco, che solo a tratti era emerso nella passata produzione. La title-track, che apre le danze, è un po' il simbolo di questo nuovo trend: incalzata dalla tromba e dall'irresistibile refrain, è proprio una bella canzoncina da fischiettare in bicicletta a primavera. Ma non c'è da preoccuparsi oltremodo, poiché tracce come la paranoica e grottesca "Tick Tock" (che prosegue sulla scia della title-track) e la riflessiva "The Enemy Within", non sfigurano affatto fra i classici del gruppo, dimostrando, se ce n'era ancora bisogno, l'unicità di un artista spontaneo e sincero, la cui arte è capace di rappresentare tutte le diverse sfaccettature della sua complessa personalità, senza peraltro perdere in coerenza.

Il secondo lato è invece all'insegna del noise più intransigente, e non a caso c'è lo zampino di Boyd Rice, che compie una vera e propria opera di macelleria del materiale fornitogli dall'amico, forse a corto d'ispirazione per confezionare qualcosa in totale autonomia. Ispirazione che non sembra mancare allo stesso Rice, che forse ci consegna la sua prova più convincente: un attento e curato lavoro di campionamento e manipolazione, che tinge inevitabilmente coi colori foschi e minacciosi dei Non quel che resta dell'opera. Le cinque tracce, fuse senza soluzione di continuità, si presentano come un unico e disturbante delirio, un monolite di angoscia e caos in cui momenti della prima sezione vengono ripresi, mutilati e trasfigurati sotto un'ottica sperimentale ed allucinata. E così, "With Bad Blood" non è altro che "Tick Tock" in versione rallentata, distorta e contaminata dai mille rumori, mentre "We Said Destroy III" è "We Destroy II" sotto lo stesso trattamento.

Il resto è un magma sonoro in cui chitarre elettriche, voci, grugniti e quant'altro vengono massacrati ai limiti dell'ascoltabilità, sortendo un effetto che non si discosta molto da certi esperimenti di Masami Akita, al secolo Merzbow (seguace non a caso dello stesso Rice, uno che il fracasso lo fa da quasi trent'anni!). E' il caso di "Lord of the Sties", che stravolge il caos chitarristico di Douglas tramutandolo in un duello fra una mola ed un trapano, o di "No Pig Day", forse il momento più inquietante e malato dell'opera. La chiusura spetta alle atmosfere minacciose di "Ride Out!", in tipico Non style.

Insomma, non è certo il lavoro più profondo della Morte in Giugno, e certamente non è paragonabile ai capitoli illustri del glorioso passato, ma alla fine l'amaro in bocca rimane solo per via di questo impietoso raffronto, poiché, se considerato come a sé stante, il tomo in questione si piazza una spanna al di sopra del resto della scena (per intendersi: sempre meglio dei lavori di Ordo Equilibrio, In my Rosary, Forseti, Der Blutharsch e compagnia bella).

Vero è che qui si compie un'operazione di riciclaggio al cubo (la prima sezione ricicla il passato, e la seconda ricicla la prima in un folle remix!), cosa che può far seriamente pensare ad una empasse creativa del nostro. Ma se affrontato con il giusto piglio, questo "All Pigs Must Die" può dare le sue soddisfazioni, soprattutto nella parte affidata agli esperimenti di Rice. E poi, diciamolo: s'è mangiato così tanto e bene in casa Death in June, siamo così satolli e soddisfatti, che se per dessert ci viene servita un brioche mezza riscaldata, non pare proprio il caso di alterarsi. No(n)?

Elenco tracce e video

01   All Pigs Must Die (03:00)

02   Tick Tock (03:06)

03   Disappear in Every Way (02:47)

04   The Enemy Within (03:43)

05   We Said Destroy II (03:51)

06   Flies Have Their House (04:11)

07   With Bad Blood (04:12)

08   No Pig Day (Some Night We're Going to Party Like It's 1969) (03:28)

09   We Said Destroy III (04:09)

10   Lords of the Sties (02:56)

11   Ride Out! (03:46)


  • Recensione: Opera:
    Hai ragione, non è il migliore. Ma di peggiore nella discografìa dei Death In June qualcosa è possibile trovare..
  • Fidia
    30 ott 06
    Recensione: Opera:
    Memento, noto che ti piacciono molto sia i Death in June che i Current 93.
    Per questioni già affrontate in una tua recensione, non credo approfondirò la conoscenza di entrambe le formazioni, ma, ad ogni modo, il tuo modo di scrivere è davvero piacevole.
  • Kratos
    30 ott 06
    Recensione: Opera:
    bella recensione, sono d'accordo anche con il voto. Da menzionare con la lode, a mio parere, la prova di Andreas Ritter.

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