1984: la Morte dell'Occidente.

Nonostante la scarsa durata (poco più di un quarto d'ora), "Burial" si afferma come un episodio assai significativo nell'evoluzione stilistica della Morte in Giugno, andando a costituire un primo affrancamento da quel sound che nel precedente "The Guilty Have No Pride" si era rivelato eccessivamente ancorato ad un canonico post-punk in stile Joy Division.

In questo EP la formazione si compone ancora di Douglas P. (chitarra, voce e percussioni), Tony Wakeford (basso e voce) e Patrick Leagas (batteria, voce e tromba), ma è evidente come la coesistenza delle tre personalità sia divenuta cosa estremamente problematica: "Burial", diviso fra gli umori introspettivi di Pearce, il rabbioso romanticismo di Wakeford e la tracotanza marziale di Leagas, è il figlio amorfo della disgregazione che la band stava allora vivendo (non a caso Wakeford fonderà di lì a poco i Sol Invictus, mentre i Death in June proseguiranno come duo, per poi in seguito passare sotto la guida del solo Pearce).

Cinque i pezzi che sanciscono la fine di questa prima fase artistica.

L'opener "The Death of the West", a cura di Douglas P., è senz'altro l'episodio più importante per i futuri sviluppi della band, sia a livello stilistico che concettuale, e da sola vale senz'altro il prezzo del biglietto. Classicissimo di sempre, "The Death of the West" è una ballata pregna di sarcasmo che va a rappresentare il primo esplicito tentativo, seppur naif, di approdo a quelle sonorità acustiche che poi verranno etichettate come folk apocalittico (dico naif per il testo, a tratti puerile, imbevuto di un'ingenua riottosità punk ereditata probabilmente dai trascorsi nei Crisis).
Ma soprattutto il brano va ad introdurre un tema cardine che caratterizzerà come un'ossessione non solo la produzione artistica dei Death in June di Pearce ma anche quella dei Sol Invictus di Wakeford: l'Europa come simbolo di una purezza tradita e violentata; la condanna di una società, quella occidentale, in piena decadenza; la contemporaneità vista come la fase terminale di una malattia che infetta fatalmente l'uomo occidentale, premessa per la sua morte spirituale.

Le successive "Fields" e "Nirvana" (rivisitazione in chiave electro-dark-ossessiva di "All Alone in Her Nirvana", già presente nel debutto), ripropongono il canonico sound dei primi Death in June, improntato su un post-punk piuttosto ordinario. Entrambi i pezzi vedono la presenza di Wakeford dietro al microfono e sono ovviamente espressione del talento irruente del corpulento bassista.

Ben più interessante lo scorcio finale dell'opera: "Sons of Europe" è una invocazione in tipico stile Sol Invictus, esperimento in cui le influenze punk (presenti ancora nel basso di Wakeford) si mettono al servizio di un rituale perverso in cui dominano le percussioni militari e la tromba di Leagas. La voce baritonale di Wakeford, rinforzata dagli ululati dei compari, si staglia epica e battagliera, fiera nel rivendicare un'identità culturale, storica ed esistenziale palese fin dal titolo. Un episodio, questo, che va ad anticipare non solo le tentazioni declamatorie che troveranno ampio respiro di lì a poco, ma anche l'attitudine, meglio espressa in futuro, di intrecciare umori marziali, spiritualismo e foschi presagi apocalittici: siamo al crocevia che incanalerà i Death in June in una direzione e i Sol Invictus in un'altra.

"Black Radio", infine, è una tetra esplorazione wave di quasi sette minuti, in cui convergono in pari modo le tre anime della band. Questo brano costituisce senz'altro la forma più evoluta e coesa di quelli che sarebbero stati i Death in June se fossero stati un trio affiatato: la tromba straziante di Leagas squarcia il pulsare incalzante di una secca drum-machine, mentre un canto surreale e minaccioso (grottesco e stilizzato quanto un manifesto di arte futurista) va ad animare gli schiribizzi chitarristici di Pearce improntati su un rumorismo elementare ma efficace. Anche qui si va ad anticipare certe atmosfere di "Nada!", ma soprattutto si viene a palesare come i Death in June, seppur ancora tributari di certe sonorità dell'epoca, fossero già ampiamente fuori dai gangheri e maturi per divenire una delle entità più innovative della scena dark ottantiana.

La metamorfosi è in atto: il folk apocalittico è ad un passo dalla sua nascita.

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