Costato tre anni di peregrinazioni per Roma, Londra, Parigi, Adelaide e Sidney, "But, What Ends When The Symbols Shatter?" segna l'inizio di una nuova fase nella carriera dei Death in June.
Una seconda giovinezza che testimonia la vitalità e l'onestà, intellettuale ed artistica, di un progetto dinamico, mutevole e sempre più espressione del travaglio spirituale del suo leader, Douglas Pearce, anima tormentata e senza posa.
I Death in June targati 1992 ci consegnano un artista maturo e consapevole di sé, dei propri mezzi e della realtà che lo attornia, e che sembra essersi lasciato alle spalle la profonda crisi depressiva ed esistenziale che testimoniavano le note dolorose del dilaniato (e dilaniante) "Wall of Sacrifice".
Complice forse l'acquisizione di un nuovo senso di identità nell'assiduo girovagare, che ha caratterizzato la gestazione di questo album, la confusione e lo sgomento che avevano contraddistinto il capitolo precedente vengono adesso a mitigarsi e ad essere superati in un nuovo atteggiamento di beffardo disincanto e freddo distacco. Il distacco e il disincanto di chi oramai ha perduto ogni speranza e che non può che divenir impotente testimone innanzi alla decadenza e al vuoto, il vuoto e la decadenza che conseguono allo sgretolarsi inevitabile della spiritualità nell'uomo. E proprio di un insopportabile senso di perdita si vanno a tingere le pagine di questo sofferto capitolo della Morte in Giugno.
Non si ode più, di fatto, il suono terribile delle fratture e delle lacerazioni interne all'animo dell'artista: quello che un tempo era solo una spaventevole e non del tutto consapevole intuizione, oggi è una certezza, compresa in tutta la sua sconcertante evidenza, una verità devastante, ma definitivamente accettata.
Proprio su questo sembra aver lavorato per tre lunghi anni Douglas Pearce, che, dall'alto del suo staus di apolide, adesso ci sembra parlare da un altro mondo, con una saggezza ed un fermezza che hanno del profetico, ma che al tempo stesso discendono dal dolore e dalla solitudine di chi detiene verità annichilenti. E proprio questa tensione latente data dalla frustrazione, dalla rabbia inesplosa, da un disagio a cui non si può dare sfogo (poiché non esiste via d'uscita), proprio questa tensione, che raramente troviamo altrove, rende quest'opera unica, certamente una delle più mature nell'intera scena "oscura", che da sempre mostra difficoltà ad emanciparsi da certe tematiche strettamente adolescenziali.
Dal punto di vista dei contenuti musicali, pur suonando Death in June al 1000%, l'album ci rivela delle atmosfere e degli umori inediti per il gruppo: il sound ci appare incredibilmente pulito, spogliato da ogni contaminazione industriale e da ogni spudorato riferimento alla seconda guerra mondiale ed al Terzo Reich (cosa che può fare la gioia di tutti coloro che, pur apprezzando la musica della Morte in Giugno, non sono mai riusciti a digerirne gli aspetti più destroidi). Quel che rimane sono dodici gioielli acustici di estrema bellezza, valorizzati da una produzione limpidissima ed una cura maniacale negli arrangiamenti (che rimangono comunque estremamente minimali).
Una formula che pesca a piene mani dal folk inglese, a cui l'artista si è da sempre ispirato, ma anche dal cantautorato apocalittico di autori come Leonard Cohen e Nick Drake. Se certo il grosso del lavoro è ancora affidato alla voce profonda e monolitica di Douglas e ai suoi semplicissimi ma efficaci giri di chitarra, oramai un vero marchio di fabbrica della sua musica, si rivela fondamentale il contributo delle ariose tastiere, a cura dello stesso Douglas, che conferiscono ai brani un'atmosfera sognante e surreale, quasi immateriale.
I pezzi, tutti di breve durata, si susseguono così con scorrevolezza ed omogeneità, impreziositi dai tocchi delicati dei sinth, dalle percussioni, mai in primo piano, da qualche sporadico assolo di tromba e da piccole contaminazioni rumoristiche che non vanno certo a stravolgere la componente melodica, assolutamente predominante.
Inutile stare a indicare i diversi episodi: seppur molto simili fra loro, raramente capita di annoiarsi o di percepire cali di tensione. Bastano le prime note della malinconia opener "Death is the Martyr of Beauty", nuovo manifesto programmatico dei Death in June targati 1992, a farci intuire le coordinate generali dell'album e a farci capire che ci troviamo innanzi ad un sound maturo ed elegante, capace di portare in sé, pur nella sua estrema semplicità, una maestosa profondità ed inspirazione, cosa che contraddistingue da sempre il sound della Morte in Giugno.
Pur rimanendo gli ingredienti i medesimi, è possibile quindi rilevare un'estrema gamma e varietà di umori e sensazioni, tutto un mondo di sfumature e accenti che debbono essere colti e che potrebbero sfuggire ad un ascolto approssimativo: vi è l'ironia amara ed al tempo stesso beffarda di "He's Disabled" e "Ku Ku Ku"; la poesia dell'incredibile coppia "Daedalus Rising" e "This is not Paradise" (impreziosita da versi in francese), entrambe interpretate dal sempre ottimo David Tibet dei Current 93.
Vi è l'atmosfera eterea e sognante di "The Golden Wedding of Sorrow" e "The Giddy Edge of Light". Pezzi più vivaci ed incalzanti come la folkeggiante "Little Black Angel", divenuto nel tempo un vero classico, ed altri più meditativi e severi, come "The Mourner's Bench", squarciata da un assolo di tromba (e che ribadisce il tema dell'impotente contemplazione), e la devastante (dal punto di vista lirico, ovviamente) title track.
Questa traccia, posta a conclusione, costituisce il vero apice dell'album, un canto di rassegnazione e perdizione che porta in sé il peso insostenibile del vuoto di "una vita senza Dio, di una fine senza Amore".
Frasi che possono sembrare scontate e banali, ma che costituiscono sentenze pesantissime per un'anima sensibile e fragile che ha deciso, con coraggio e coerenza, contrariamente ad ogni ipocrisia e compromesso, di portare alle estreme conseguenze il suo viaggio solitario alla ricerca di una purezza che la elevi e che la conduca alla comprensione, di sé, delle cose, dell'esistenza stessa.
Decisamente indicato a chi si avvicina per la prima volta alla musica dei Death in June. Un album per tutti, e che tutti dovrebbero custodire gelosamente nella propria collezione.
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