Deerhoof. Un nome che genera imprevedibilità e strabordante originalità. Ficchi un loro disco nel lettore e ciò che vedi sono colori impazziti, vocine, prati, fiori che danzano, animali che scoreggiano. Un immaginario che può essere paradisiaco o infernale, ad ogni cambio di nota. La loro capacità innegabile di scrivere canzoni semplici e non-lineari, rumorosissime, spesso cacofoniche e infantili.

Il bello stava lì, in quegli squarci insensati e illeggibili. Stava tutto nelle abrasioni musicali e nella voce sbilenca di Satomi, spesso paragonata (forse a torto) alla Kazu Makino dei Blonde Redhead, non solo per la provenienza nipponica, ma anche per i loro timbri "particolari", che si fanno distinguere immediatamente. Ma mentre Kazu Makino, negli ultimi dischi dei suoi Blonde Redhead (rispettivamente "Misery Is A Butterfly", "23" e "Penny Sparkle"), ha saputo maturare la sua ugola, fino a renderla malleabile, tremendamente sexy e seducente, in grado di alzare l'endorfina o, al contrario, di cullare con grazia, Satomi è rimasta ferma alla sua interpretazione sbilenca, ormai da quel lontano 1997, anno in cui fu pubblicato lo straordinario "The Man, The King, The Girl", il manifesto deerhoofiano e capolavoro dell'assurdo.

E ora, anno 2012. Dopo un continuo partorire dischi a ritmi decisamente alti, i Deerhoof sono tornati con "Breakup Songs", un disco che, già dal primo ascolto sconcerta.

Ma non sconcerta come può sconcertare "Milkman", o "Apple O'": sconcerta per il suo tentativo, forzatissimo, di normalizzare il gruppo in una forma canzone sì "Arty", ma anche, paradossalmente, banale. Sì, con i Deerhoof, la presa della normalità diventa ancora più scioccante della cacofonia.
"Breakup Songs" è un disco ancora ricco di idee, capace di momenti interessantissimi, eppure è lungo come uno sputo (solo 29 minuti) e non sorprende, non morde, nemmeno infastidisce. Sfiora l'ascoltatore, lo abbraccia e poi lo abbandona, così, con la capacità che potrebbe avere un EP.

E' vero, i Deerhoof sono invecchiati e hanno perso la vena anarchica che li ha sempre contraddistinti dal primo lavoro: anzi, no, è sempre presente, ma si sta sgretolando pian piano in una macchietta di sé stessa, senza permettere che le nuove proposte possano lasciare minimamente qualcosa per cui essere ricordate. E così tutto si dispiega in undici canzoni art-pop che potrebbero essere il disco d'esordio di un qualsiasi gruppo hipster-meteora. 

Ed è così che posso sinceramente dire che "Breakup Songs", nonostante la piacevolezza, sia il primo grande passo falso della band. Evitando di fare i fatalisti (che io li odio) del tipo "I Deerhoof sono i morti! Viva i Deerhoof!), sarà la prossima prova a darci la verità.

Rimandati a Settembre.  

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