Mattacchioni e strampalati questi Depeche Mode del postmodernismo. Sopravvissuti alla tremenda carestia 80s e ai quasi fatali travagli personali del frontman, cherubini dell'elettronica, serafini dell'alternative synth magicamente spiaggiato nel contesto pop mainstream, Gahan e soci continuano a viaggiare sulla liscia e dritta autostrada della loro brillante carriera senza fermarsi agli autogrill dello sfascio e del cliché, lontani dal volersi sottomettere al mercato dei facili guadagni e contemporaneamente remoti dallo scrivere la parola "fine" ad una delle più felici pagine della storia della musica contemporanea.

Il ritorno dei Depeche Mode sugli scaffali dei negozi di dischi è uno di quegli eventi imperdibili per gli aficionados delle ultime reliquie del passato e l'ultimissimo "Delta Machine" non poteva fare eccezione, sebbene i tre moschettieri del synth non abbiamo profuso chissà che sforzo per annunciare al mondo la conclusione del tradizionale periodo quadriennale di sosta: una copertina modesta, un primo singolo, Heaven, alquanto silenzioso in radio e nei canali musicali di massa e, naturalmente, la presentazione dell'imminente tour mondiale. Eppure la faida di Gahan, da sempre piuttosto discreta e poco affine ai roboanti spettacoli circensi, è riuscita, ancora una volta, a dimostrare per l'ennesima volta di saper sfornare grandi lavori: "Delta Machine" è probabilmente il miglior lavoro dei Depeche Mode da un decennio a questa parte, in grado non solo di reggere abilmente il confronto con i mostri sacri "Violator" e "Songs of Faith And Devotion" ma anche di saper fondere in un unicuum discografico il meglio del meglio di quelli che furono gli scrigni preziosi della loro ultratrentennale produzione. Ecco perché definirli "mattacchioni", con un pizzico di infantile e ingenua bonarietà, è forse il modo migliore per descrivere una band apparentemente taciturna e pacata e invece dannatamente possente e persino "cacofonica", artefice di un album fra i più elettronici, distorti, "lunatici" e dialetticamente chiaroscuri del loro repertorio. Si può paragonare la ricetta utilizzata per "Delta Machine" ad un grande dolce multistrato, un tripudio di gusti, sapori, creme e addirittura spezie e aromi: aggiungete l'oscurità mistica di "Ultra", il pre-baratro iper-creativo di "Devotion", il trapasso luce-ombra di "Violator", mescolate il tutto con una spolverata di anni Ottanta (in particolar modo la svolta industrial di "Black Celebration" e "Music for The Masse"s) e infine frullate il composto ottenuto con qualche ingrediente recente (Playing The Angel, Exciter). Insomma, "Delta Machine" rappresenta la perfetta condensazione di trent'anni e rotti in un energico e "pompato" disco a metà strada fra gli aloni dark, la spiritualità gotica e i pallidi eppure caldi raggi di luce delle spensieratezze primordiali.

"Delta Machine" è stato, un po' bizzarramente, aperto dal primo estratto Heaven, una sorta di ballata synth-alternative alla "Ultra" che non rende minimamente il boato latente nascosto nelle altre tracce, già in grado di schiudere il lato "casinista" con la seconda proposta di Soothe My Soul, ottimo connubio blues-industrial che pare ricordare precedenti lavori del calibro di John The Revelator e Hole To Feed. Il blues rimane fattor comune in altri brani, fra i quali spiccano i giochetti synth revival di Soft Touch/Raw Nerve - canzone fra le migliori dell'intero album -e la depressione country-artefatta di Slow e di Goodbye. La squadra Depeche torna su terreni sicuri con le classiche maestrie elettroniche-alternative di Secret To The End, la rabbia robotica quasi "sputata" di Gahan in Angel, i saliscendi al sintetizzatore di Should Be Higher e le atmosfere quasi onirico-chill out per The Child Inside, l'unico brano interamente cantato dal drammatico Gore - peraltro superiore alla media se confrontato con vecchi pezzi "goriani" come Jezebel e One Caress. Da notare anche Broken, una sorta di rivisitazione della più celebre Policy of Truth.

Se i precedenti "suoni dell'Universo" hanno fatto un po' stortare il naso ai depechemodiani più choosy e pretenziosi, "Delta Machine" ha tutte le carte in regola per recuperare i fasti semi-perduti di "Playing The Angel" et similia. Siamo, dopo tutto, al cospetto di coloro che possono salvare l'elettronica dalle mescolanze mainstream più terrificanti da quando l'artificio sonoro ha poggiato i piedi sul pentagramma, pionieri di un genere corrotto ma non esaurito, sfruttato ma non ucciso, schiavizzato ma non dichiarato incostituzionale e messo sul patibolo. Dunque, amici, suonate le trombe sintetiche, ripopolate San Siro, aggiornate i suoni universali con le esternazioni melodiche dell'altoforno Delta: i Redentori son tornati. E non ci sarà synth che tenga a farli sgombrare.

Depeche Mode, Delta Machine

Welcome to My World - Angel - Heaven - Secret to the End - My Little Universe - Slow - Broken - The Child Inside - Soft Touch/Raw Nerve - Should Be Higher - Alone - Soothe My Soul - Goodbye.

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