Non mi sono mai strappato i capelli per i Depeche Mode e, fatto salvo un paio di dischi che hanno segnato i tempi, il mio attaccamento a questa ormai trentennale band si basa più su singole canzoni che su album o periodi di produzione. Tuttavia riconosco che Martin Gore e soci hanno saputo capitalizzare al meglio quanto avevano seminato nel decennio degli '80 e sono rimasti - assieme agli U2 - gli unici sopravvissuti di fama planetaria di un'epoca ormai consegnata ai posteri.

Il nuovo album Delta Machine esaspera e contrappone due elementi essenziali di questa fase professionale del gruppo: la nervatura blues della scrittura, dei testi e del mood e l'uso sempre più ortodosso dell'elettronica. Il che crea un melange quantomeno interessante nel panorama pop odierno, dove sintetizzatori e chitarre sembrano aver nuovamente divorziato.

Martin Gore a tratti sembra avere più America nell'anima del crooner rockettaro Gahan, visto che non ha più abbandonato dai tempi di "Songs Of Faith And Devotion" la predilizione per i riff sulle sei corde, nonchè per le liriche intrise di malinconie e sprazzi mistici. Tutto Delta Machine è pervaso da un brivido sudista che porta i frizzi analogici e le eleganti scorregge digitali tra le pagine del Vangelo; che io intendo non semplicemente come sacra scrittura del Nuovo Testamento, ma in senso più ampio come manifestazione di fede, amore e rivelazione dogmatica.

E se da un lato la profusione di suoni elettronici da risalto ad un titolo (e ad una copertina) ammantato di modernismo urbano e tecnologico, dall'altro ci sono le foto nel sottobosco e le dichiarazioni sentimental-religiose a dirci che i Depeche hanno definitivamente imboccato la strada della mediazione. Continuano così dopo due album molto simili - cosa prevedibile vista la riconferma di Ben Hillier alla produzione - a proporci un blues sintetico che alterna melodia e ritmo senza tradire le radici originali tanto amate dai fans della prima ora e senza deludere gusti ed esigenze di una più vasta platea odierna.

Certo, qui dentro è impossibile trovare brani che facciano fremere la mente e il cuore come furono "Enjoy The Silence" o "Never Let Me Down Again", non per niente diventati icone non solo della band, ma di un intera fase della scena musicale mondiale (coverizzati da cani e porci in mille salse, infatti). Dubito che la maestosa e struggente "Heaven" possa divenire nel tempo una canzone evergreen buona da usare nello spot di un profumo quanto nello spot di un evento calcistico. Così come la delicata tecnomusic di "Secret To The End" o la ninna-nanna ancestrale di "The Child Inside" possano sostituire tracce immarcescibili della discografia storica dei Depeche. E quando le pigre schitarrate di "Slow" e "Goodbye" ricalcano ancora una volta le passeggiate tra i cactus del deserto che già ci divertivano ai tempi di "I Feel You", non si possono avere dubbi circa la direzione sicura, confortevole e universalista che il trio di Basildon sta seguendo con dovizia professionale e accortezza commerciale. Anche perchè nelle 17 tracce di Delta Machine, alla fine, c'è davvero di tutto e il tour mondiale con tappe a tutte le latitudini dimostrerà ancora una volta che controcoglioni siano necessari per sopravvivere a questi livelli per oltre trent'anni.

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