I Devil Doll vengono spesso accomunati a nomi come Jacula e Antonius Rex, non solo per il genere suonato (dark-progressive?), ma anche per l'alone di mistero e leggenda che aleggia intorno a queste formazioni. Mistero e leggenda creati ad arte, potremmo maliziosamente aggiungere, dato che sul conto di queste band si finisce comunque per apprendere molte notizie e diversi retroscena, non sempre legati ad aspetti strettamente artistici. Ciò non toglie niente al valore dei Devil Doll, indubbiamente una grande band: una formazione divisa fra Italia e Slovenia, una manciata di opere pubblicate in tiratura ultra limitata (roba che scoraggerebbe il più fanatico dei collezionisti – il primo album se ne usciva addirittura in un'unica copia!), la figura carismatica di Mr Doctor (alias Paolo Panciera, che ha svelato l'identità anni dopo lo scioglimento del gruppo).

Fra il 1987 e il 1996 la band ha vissuto di una vita reale, fra concerti e la pubblicazione di circa sei album, di cui l'ultimo in ordine temporale è proprio questo “Dies Irae”, la cui lavorazione è stata a dir poco travagliata: la band entra in studio nel 1993 per registrare la suite “The Day of Warth – Dies Irae”, ma un incendio nello studio durante il missaggio porta l'irascibile Mr Doctor ad accantonare momentaneamente il progetto (si vocifera addirittura dello scioglimento della band), mentre le registrazioni salvate dal rogo verranno temporaneamente recuperate con l'operazione “The Lost Tapes”. Il lavoro viene comunque presentato dal vivo nel corso dell'anno successivo e la buona accoglienza da parte di pubblico e critica convince Mr Doctor a rientrare in studio e riprendere la lavorazione dell'album, che verrà ultimato con l'ausilio dell'Orchestra Filarmonica Slovena, e che vedrà finalmente la luce sotto forma di vinile nel 1995 e su cd nel 1996.

Ma fatti di cronaca a parte, rimane l'arduo compito di descrivere la musica patrocinata dai Devil Doll, una sorta di oscura forma di dark-progressive dalla spiccata indole sinfonica (a proposito di autori classici, a me personalmente viene spesso in mente Maurice Ravel), anche se al cospetto dei Devil Doll ogni definizione lascia il tempo che trova. Parlare di musica unica ed indefinibile non è quindi cosa fuori luogo, almeno in questa circostanza. Completamente avulsi da mode, tendenze e generi musicali codificati, i Devil Doll confezionano un prodotto che difficilmente può trovare dei termini di paragone nel vasto panorama della musica oscura (ma non solo). “Dies Irae” rimane nella sua essenza un'unica composizione di circa cinquanta minuti, per la comodità dell'ascoltatore divisi in diciotto frammenti: frammenti di due/tre minuti cada uno, a loro volta frammentati al loro interno, tanto che è difficile conferire loro un senso se presi singolarmente (le stesse tracce sfumano l'una nell'altra senza soluzione di continuità, ed è curioso notare come l'una irrompa nell'altra mentre ancora deve terminare un passaggio strumentale della precedente).

E infatti “Dies Irae”, non altro che un complesso mosaico di ambientazioni (ma non privo di un suo climax, dato che l'opera, soprattutto nella sua irruente conclusione, può essere letta come un crescendo di tensione e mistero che si svela poco a poco), risponde ad un intento di fondo in cui le sue parti non sono altro che tasselli funzionali alla narrazione. “Dies Irae” è infatti un concept: un concept che vede al suo centro la figura immaginaria di George Harvey Bone, protagonista del thriller diretto da John Brahm “Nelle Tenebre della Metropoli” (1945), in cui Bone è un compositore (il dramma è ambientato nella Londra dei primi del novecento) che soffre di una strana forma di schizofrenia che lo porta alla violenza incontrollata e persino all'assassinio, nel momento in cui entra in contatto con suoni dissonanti. Questo a rimarcare il laccio stretto che lega il progetto italo-sloveno all'universo cinematografico (non a caso il nome della band è il titolo del film “La Bambola del Diavolo” (1936) del maestro Tod Browning, e già l'album “The Girl Who Was... Death” si ispirava alla serie televisiva inglese “Il Prigioniero”). Non manca comunque un solido background letterario, dato che molti dei testi si ispirano a versi di Edgar A. Poe, Emily Bronte ed Isidore Ducasse.

La scrittura dei brani è interamente affidata a Mr Doctor e al suo braccio destro Francesco Carta (pianoforte), capofila di una formazione che comprende ben otto elementi (la maggior parte dei quali di cittadinanza slovena), senza contare l'apporto dell'orchestra e di ben tre cantanti d'opera, fra cui spicca il soprano Norina Radovan, alla quale sono concessi ampi spazi per esprimere il proprio talento. Come recitava l'annuncio che Mr Doctor nel 1987 affiggeva per reclutare la propria band (“Un uomo è minimamente probabile che diventi grande tanto più è dominato dalla ragione: pochi possono realizzare la grandezza – e nessuno nell'arte – se non sono dominati dall'illusione”), così la sua musica è perfettamente fedele al dettame appena enunciato, e non solo per la maniacalità con cui è curato ogni singolo dettaglio e per la buona produzione, che non fanno che esaltare la bontà dei contenuti. Artisti focalizzati e padroni dei proprio mezzi al servizio quindi di una musica ambiziosa, che trasporta costantemente in sé un senso di grandiosità, di volontà di superamento di ogni limite umano ed artistico, di intrinseca irrazionalità votata all'espressione di sentimenti profondi. Una musica che tende ad una sintesi che contempla in modo armonioso ed imprevedibile componenti distanti, come la musica da camera (abbondano le parti eseguite con strumenti classici), l'opera, suggestioni gotiche ed orrorifiche, ed elementi più tipicamente rock (un rock che non rinuncia a batteria ed irruzioni di chitarra elettrica e persino a flirtare con il metal sinfonico in certi passaggi).

E in mezzo c'è lui, Mr Doctor, un cantante/non cantante unico nel suo genere (quale poi?), più portato al teatro ed alla recitazione che al canto: il suo “stridulo sibilo”, il suo disturbante sussurro è una morbosa via di mezzo fra David Tibet (Current 93), Tilo Wolff (Lacrimosa) ed un Alice Cooper (quello di “Welcome to My Nightmare) ovviamente spurgato della sua componente glam, senza contare le assonanze inquietanti (soprattutto nell'attrazione per atmosfere macabre e grottesche) con l'estro di Anna Varney (Sopor Aeternus & the Ensemble of Shadows), artista che tuttavia, quando i Devil Doll componevano e suonavano e davano alle stampe i loro lavori, non aveva ancora raggiunto la popolarità. Con la voce, non solo asessuata ma persino disumana, di Mr Doctor la musica dei Devil Doll smette di essere semplice musica classica, semplice rock progressivo, semplice dark dalla vocazione teatrale, e diviene un'esperienza che non potrà che lasciare un segno profondo nell'ascoltatore.

Lo svolgimento dell'opera è labirintico, lo schema arzigolato, eppure la qualità principale di questo complesso di individui è quella di non scivolare nel tedioso, nell'artefatto, nel vuoto manierismo, ma bensì di essere in grado di regalare più di un momento memorabile (cosa non facile se si pensa alla quantità spropositata di spunti e soluzioni). Momenti memorabili che sono descrivibili nei seguenti termini: un'improvvisa apertura di organo che rapisce per la sua maestosità, un delicato fraseggio di pianoforte che si apre una via dopo lo stridere inquieto degli archi o dopo il fragore delle chitarre e le loro fughe progressive, il volteggiare conturbante di un soprano votato alla follia, strazianti urla di strega, l'irrompere di cori operistici, il placido gorgogliare di canti gregoriani, e poi tutto il panorama di emozioni che ci consegna l'interpretazione unica ed inimitabile di Mr Doctor, non solo regista, ma giustamente protagonista dell'intera messa in scena. Dall'insinuante sussurro, alla rabbiosa declamazione, passando dai rantoli sfibrati di un essere in fin di vita, versi che hanno del demoniaco e inaspettate concessioni ad un fragile lirismo: la visione artistica di Mr Doctor è fatta di voli pindarici e schizofrenia, pari a quella che sembrerebbe infestare la mente disturbata del protagonista della storia descritta, non altro che una metafora dell'insondabile legame fra psiche e musica, fra psiche ed arte (e forse solo in questo aspetto la proposta dei Devil Doll può essere definita esoterica).

Mai era stato lecito ascoltare musica simile, ed è un peccato che il medium delle parole non sia minimamente in grado di descriverla: ne avevo lette di lodi sperticate, ma ho dovuto ascoltare per credere.

Ascoltateli per credere.

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