Così rossa è la rosa che sulla gota splende

che sa ingannare il cuore.

Si imprime nello sguardo e lo cattura,

bellezza che altera illude chi ti guarda

e alla tua mano consegna in servitù il suo cuore.

Bellezza che vezzeggiando offende: che importa

se il pugno cui affido un cuore innamorato

ha dita come spine? Che importa se poi il cuore si fa liuto

e in musica convertono le dita il suo lamento?

E infine quel mio cuore si fa freccia

lanciata dalla mano d’un arciere che a morte lo stringeva:

del sangue del mio cuore dardeggiato

io me ne vanto, e rido

Abū Nuwās

Il 22 dicembre del 609 viene comunicato a Maometto il messaggio del Corano che verrà pubblicato per la prima volta nel 650, ma tra la fine del 700 ed il primo 800, un poeta iraniano, Abū Nuwās (o Abu Nawas), parla di tradimento, amori efebici e di quanto il vino e la carne di cacciagione fossero meglio dell’acqua e della carne bianca. Verrà ovviamente ucciso, probabilmente per il “peccato” di omosessualità…

Il 1 marzo del 2010 viene rilasciato da Jazzland Recordings l’album “Abu Nawas Rhapsody” di Dhafer Youssef (quartet), tunisino emigrato prima in Norvegia, poi in Austria ed infine in Francia. L’album vuole essere una sorta di elegia ad uno dei poeti più influenti di sempre del mondo arabo.

Questa opera, che dura circa un’ora, è letteralmente uno splendore. E’ un disco che emerge dalle plurime sfaccettature del jazz, dalla semplicità con il quale si potrebbe utilizzare il termine fusion, dalla banale identificazione con il canto medio-orientale.

Uno dei motivi principali per cui “Abu Nawas Rhapsody” si eleva ad altissimi livelli è la qualità dei suoi interpreti. “Il cuore” che “si fa liuto” è ovviamente quello di Dhafer Youssef (oud, voce), al suo fianco Tigran Hamasyan (pianoforte, beatbox), Mark Guiliana (batteria) e Chris Jennings (contrabbasso).

E’ una sensazione di risveglio post-serata alcoolica, quella del brano che apre l’ode al vino (“Sacré – The Wine Ode Suite”), con il canto armonico di Youssef accompagnato dalla liricità del pianista armeno, perché alla fine, io, questo Abū Nuwās, me lo immagino un po’ come un Baudelaire nato un millennio prima, nel posto clamorosamente sbagliato.

“Les Ondes Orientales” e “Odd Elegy”, a mio avviso, sono due monumentali manifesti della musica di Youssef.

Nel primo brano l’oud interloquisce sonoramente con il pianoforte fino a quando, ribadendolo all’unisono, i due strumenti non si trovano d’accordo sul tema da condividere. Guiliana prende per mano i due solisti con un ostinato corrisposto dal contrabbasso di Jennings, ma il moto non è costante, è quasi un invito a peccare, ma viene stoppato dalla spiritualità del canto del tunisino, quasi salmodiato. L’indemoniato Mark Guiliana (pluripremiato ai recenti Drummer Awards) conduce Hamasyan verso la trasgressione in un assolo potente, deciso, estenuante che alterna frasi puramente jazz, alla musica modale amata da Youssef, il quale gli ricorda i precedenti “dialoghi” avuti, fino a riportarlo alla “ragione” del tema, finanche accettato da contrabbasso e batteria. Una storia in un brano di nove minuti.

“Interl’oud”, giochetto di parole a parte, è un breve solo del liuto arabo che anticipa “Odd Elegy”. L’elegia del bizzarro del poeta de “Le mille e una notte”, è il secondo brano sui mi dilungherò, letteralmente devastante, per costruzione e rendition musicale. ll groove fornito da Mark Guiliana, su cui si appoggiano gli altri tre musicisti, ha dell’incredibile: un tempo gestito, ma non ne ho l’assoluta certezza, in tre movimenti da 7/16 e due da 9/16, roba da analgesico pesante. Il batterista del New Jersey completa la sua maiuscola performance con un assolo nel finale da spezzare le bacchette a parecchi novizi, per gusto e tecnica d’esecuzione (vi invito ad ascoltare la versione del live che allegherò alla recensione).

Vale la pena spendere due parole per “Hayastan Dance” (la danza armena) padroneggiata da Tigran Hamasyan dalla prima all’ultima corda martellata e di “Khamsa – The Khamriyyat of Abu Nawas”. E’ un brano che si scopre moderno nel finale, quasi funky dopo un incipit decisamente introspettivo, intimista, che si sviluppa principalmente su scale frigie e armoniche minori. La Khamsa (o Mano di Alo o Mano di Fatima) è un amuleto “infallibile” contro il malocchio e viene associato alle credenze anche di Nawas che ne parlava nella sua Kamhriyyat, ovvero la poetica bacchica, per sconfiggere i dolori post-sbornia.

“Shaouk”, “Sura” e “Shata” ci tengono nel contesto mediterraneo con piacevoli scambi musicali, in cui pianoforte e oud rivestono sempre un ruolo virgiliano, ancor più del canto.

Il medio-oriente si percepisce nella sua forma musicale tradizionale, ma con un tema scomodo come l’amore libertino “Ya Hobb – In the Name of Love” e nella sua forma più vicina alla musica mistica “Mudataman – The Wine Ode Suite”.

Il recitato di “Profane – The Wine Ode Suite” chiude l’opera che più di tutte ha creato in me empatia con il maestro dell’oud.

A buon ascoltator, poche parole (preziose).

Carico i commenti... con calma