Una giovinezza diaccia e infame. Ma forse proprio per questo indelebile.
Tutti noi vorremmo fermare il tempo, è una questione viscerale. E perciò lasciamo le cose maniacalmente lì dove stanno, a patire la polvere dei giorni.
Prendiamo Federico.
Federico ha vent’anni all’inizio degli anni Ottanta e si consuma gli occhi sui maudits. Suona i Joy Division e sogna una vita maledetta à la Rimbaud. Federico del fiorentino ha tutti i difetti e tutti i pregi, altèro scostante stronzo sincero. Sarà un cantautore a suo modo unico, ma ancora questo non può saperlo.
Intanto suona un rock duro e umbratile. Ma la poesia, l’arte di mettere le parole in fila, quella l’amava già follemente allora (e follemente l’amerà sempre). E come si può amare la poesia a vent’anni? Come l'arte di sublimare la merda d’ogni giorno per farne diamanti grezzi, opalini ed eterni.
1984. Federico mette le parole in fila e inventa un mondo ricordato per finta. Sotto la sferza d'un vento (cat)artico, suona Siberia, che sa e di romanzi russi e di Paul Verlaine e di tumultuare inquieti e d'Amsterdam. La musica è sì dura, al vetriolo, ma non come prima. Prima l’incazzatura era nuda e cruda, ora sembra come erosa da una melancolia senza volto e senza nome e resa, così smussata, perfetta. La voce di Miro poi, pare fatta apposta per quelle parole e quei suoni.
Non dico altro, ché questo disco va ascoltato e basta.
2016. Federico è venuto a patti con lo sciabordio del tempo e per quasi quarant’anni ha percorso una via ineluttabilmente differente da quella della propria gioventù. Percorrendo la via confidenziale d'un eremita con la chitarra acustica stretta in mano e con la malcelata voglia di mettere le parole in fila, giorno dopo giorno, ha accettato forse di non essere più quello d'un tempo.
E in questa sua perfetta solitudine, oggi Federico torna in Siberia, ed il tempo trascorso te lo senti pesare addosso in modo insopportabile: il paesaggio è irriconoscibile e la musica, allora acuminata, s’è fatta docile. Nulla di quella fragile perfezione ci balugina più di fronte. Poco più che ventenne, l'urgenza di dire aveva intarsiato mille pieghe d'un mondo notturno e tracotante, che alle luci tiepide dell'oggi —percorso a ritroso da chi oggi di anni sulle spalle ne ha sessanta— fa bella mostra di sé in tutta la sua giovanile ingenuità.
Quanto a me, dato che come tutti vorrei poter fermare il tempo, continuerò ancora e ancora a ritornare alla Siberia d’allora, e lì a vagare, alle luci dell’alba, in mezzo agli operai che vanno o tornano da chissà dove, oppure con quello che, di loro, è rimasto indietro ad ascoltare la brina del proprio respiro, assorto in chissà quale pensiero.
Forse perché, a differenza di Federico, non ho ancora accettato il levigare dei giorni e la crudeltà del tempo.
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