Una giovinezza diaccia e infame. Ma forse proprio per questo indelebile.

Tutti noi vorremmo fermare il tempo, è una questione viscerale. E perciò lasciamo le cose maniacalmente lì dove stanno, a patire la polvere dei giorni.

Prendiamo Federico.

Federico ha vent’anni all’inizio degli anni Ottanta e si consuma gli occhi sui maudits. Suona i Joy Division e sogna una vita maledetta à la Rimbaud. Federico del fiorentino ha tutti i difetti e tutti i pregi, altèro scostante stronzo sincero. Sarà un cantautore a suo modo unico, ma ancora questo non può saperlo.

Intanto suona un rock duro e umbratile. Ma la poesia, l’arte di mettere le parole in fila, quella l’amava già follemente allora (e follemente l’amerà sempre). E come si può amare la poesia a vent’anni? Come una cosa che sublima la merda d’ogni giorno per farne diamanti grezzi, opalini ed eterni.

Federico mette le parole in fila ed inventa un mondo abbacinato e ricordato per finta. Questo mondo che ha nome Siberia sa di romanzi russi e di Paul Verlaine, di tumultuare inquieto e di notti olandesi. La musica è sì dura, al vetriolo, ma non come prima. Prima l’incazzatura era nuda e cruda, ora è come erosa da una melancolia senza volto e senza nome e resa, così smussata, perfetta.

La voce di Miro poi, pare fatta apposta per quelle parole e quei suoni.

Non dico altro, ché questo disco va ascoltato e basta.

Ora, Federico è venuto a patti con lo smussarsi del tempo, e per quasi quarant’anni ha percorso una via ineluttabilmente differente da quella della propria gioventù. Ha percorso la via confidenziale d'un eremita con la chitarra acustica stretta in mano e con la malcelata voglia di mettere le parole in fila, giorno dopo giorno.

E in questa sua perfetta solitudine, oggi Federico torna in Siberia, ed il tempo passato te lo senti addosso, pesante in modo insopportabile. Il paesaggio è irriconoscibile, e la musica, allora acuminata, s’è fatta docile.

Poco più che ventenne, l’urgenza di dire aveva intarsiato un mondo notturno, che alle luci tiepide di oggi, percorse da chi di anni ne ha ormai sessanta, fa bella mostra di sé, in tutta la sua giovanile ingenuità.

Io, intanto, che come tutti vorrei fermare il tempo, continuerò a tornare alla Siberia d’allora, e lì a vagare, alle luci dell’alba, in mezzo agli operai che vanno o tornano da chissà dove, oppure con quello che, di loro, è rimasto indietro ad ascoltare la brina del proprio respiro, assorto in chissà quale pensiero.

Forse perché, a differenza di Federico, non ho ancora accettato il levigare dei giorni e la crudeltà del tempo.

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