Diamanda Galàs è senza ombra di dubbio una delle musiciste e compositrici più originali del nostro tempo, che si è imposta con personalità forte e con un messaggio complesso, spesso frainteso per atteggiamenti ed esternazioni non condivisi dai media (in particolare).
Non è molto simpatica negli USA, dove molte minoranze, tra cui quella greca – a cui lei stessa appartiene - sono completamente tagliate fuori dal sistema. Dopo aver lavorato esclusivamente nell’ambiente avanguardistico tra la fine dei ’70 e gli ’80, tra il 1991 e 1994 con due dischi come Plague Mass e The Sporting Life (scritto e suonato con John Paul Jones) viene presa in considerazione non solo dalla stampa specializzata, ma anche da un pubblico sempre più numeroso. Nel 1988 arriva ad una svolta notevole, confezionando per la prima volta dei brani molto più simili alla forma-canzone canonica

Il tentativo, talvolta forzato, di inserire la sua indole ingombrante in brani di 4-5 minuti però riesce per la maggiore. 
Il singolo Double Barrel Prayer – primo singolo in tutta la sua carriera - è la dimostrazione più lampante di questa nuova veste. A livello concettuale sembrerebbe un tentativo di commercializzazione del lavoro, ma la ricerca artistica della signora, tuttora, sfugge a giudizi di questo genere. 
In questo LP, per la prima volta, oltre che avere una band propriamente “rock” come supporto, rilegge due canti della tradizione afroamericana. Swing Low Sweet Chariot è il manifesto della nuova Diamanda Galàs: un soprano inarrivabile. Una interpretazione carica di tensione e angoscia per quel canto che gli schiavi neri cantavano tornando esausti dai campi di cotone.

Swing low, sweet chariot
Coming for to carry me home

Let My People Go, a cui apporta qualche modifica più personale, è l’unico brano accompagnato dal solo pianoforte, con reminescenze talvolta gotiche, talvolta più “epiche” del solito. Guardando anche i brani autografi, si nota sempre un versatile approccio alla vocalità, marcato da arrangiamenti molto diversi da una traccia all’altra. Il singolo fa pensare molto a qualche discoteca con smanie goth/dardeggianti, la titletrack ad un circo pieno di improbabili coriste gospel, Malediction invece va su dei toni inaspettatamente funky. L’unica cosa da rimproverare probabilmente è la lunghezza: solo 8 brani.
Un disco che probabilmente le cantautrici più rock-oriented dei '90 conoscono molto bene.

Carico i commenti... con calma