Al calare degli anni '80 l'hardcore punk è in pieno sbando. Ancora lungi dal rinascere in forma melodica e commerciale a metà dei '90, alla fine del decennio che l'ha visto prosperare l'HC sembra una nave che affonda: tutti la stanno abbandonando. Dei gruppi che ne hanno creato l'epica pochissimi, fra quelli che non si sono già separati, restano fedeli alla linea, mentre tutti gli altri migrano verse altre sonorità: c'è chi estremizza il suono indurendolo col metal (Agnostic Front, D.R.I.), chi di contro si ammorbidisce e rallenta (7 Seconds, JFA), e c'è chi, invece, pioniere, esplora la terra ancora selvaggia dell'alternative, in anni pre-Nirvana in cui il termine voleva dire tutto e niente. E' il caso dei nostri Die Kreuzen.

Dopo un primo folgorante album omonimo, caposaldo dell'hardcore punk più elaborato (ma non per questo meno brutale), la band del Wisconsin fu fra le prime a smarcarsi dalla Scena e rielaborarsi con tutt'altre musiche: già nel terzo, bellissimo album "Century Days" di punk in senso stretto c'è poco, rimpiazzato da chitarroni protogrunge, discorso che viene proseguito e ampliato in questo, ancora migliore, "Cement" del 1991. C'è molto da dire in questo, purtroppo ultimo, lavoro delle Croci: è un album splendido, sanguigno, intenso, tanto misconosciuto dal pubblico (che resterà sempre ancorato al primo storico LP) quanto vibrante di canzoni memorabili immortalate da un Butch Vig all'alba del suo periodo d'oro.

E' un album intimo e intimista, ricco come mai prima di ballate mai banali e mai smielate: Blue Song che sembra quasi anticipare i Pearl Jam, l'acusticheggiante Deep Space che richiama i R.E.M., l'incredibile Shine e una versione acustica di Gone Away (già apparsa nell'EP omonimo) posta in chiusura, così bella da togliere il fiato. Non mancano ovviamente pezzi più robusti come l'iniziale Wish, la soundgardeniana Big Bad Days, o una Downtime dall'incedere vagamente marziale, ma penso che fare una sterile lista delle tracce sminuisca l'album: è un lavoro coerente, potente, con pochissimi cali di tensione e quasi nessuno di qualità. Un applauso speciale al grandioso lavoro di chitarre di Brian Egeness, qui anche all piano dove occorre.

L'unica nota negativa di questo album, per quanto mi riguarda, è soltanto il suo essere l'ultimo di una band mai abbastanza celebrata; resta il rimpianto per quello che avrebbero potuto creare, resta il magone per quello che non è mai potuto accadere, ma anche, e soprattutto, resta la musica, che fortunatamente è la cosa più importante.

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