Ok, ok… il cornuto diavolone in copertina è uno spudorato inno a Belzebù. Scopiazzare il nome d’arte da colui che prenderebbe l’oscar come “miglior attore non protagonista”, se facessero una fiction sulla bibbia tutta, non potrebbe certo definirsi una mossa “politically correct”. E non è neanche bello farsi vanto di un prete incatenato che affoga. L’hard rock è oltre ogni limite, e non gli si possono piantare attorno paletti d’alcun genere. “Holy Diver” contribuì a creare una nuova corrente musicale (la N.W.O.B.H.M.), ma anche ad affossare molte utopie. L’epoca di Sergio Leone, quando ci raccontavano che era tutto nostro, fino al punto in cui riuscivamo ad avere picchetti da piazzare sul terreno dello sconsolato West, termina ufficialmente. E tanti di noi, ancora molti anni dopo, pazzi di Clint Eastwood, giocavamo a fare “la parte del buono”. Ma sarò franco (in via del tutto eccezionale), se mi avessero mai proposto di recitare un ruolo, avrei chiesto quello del cattivo. Sì, cattivo. Come il sound selvaggio ed aggressivo di questa perla dell’hard’n’heavy made in USA.
I primi colpi d’artiglieria, con l’urlo di “Stand Up And Shout”, fungono da carica per il successivo assalto all’arma bianca. Ad impugnare l’ascia, per l’occasione, è un ragazzino diciannovenne d’ origine irlandese, il cui approccio e la cui tecnica diventeranno un metro di paragone per molti suoi successori. Peccato il buon Viv Campbell non abbia mai più saputo (o voluto?) veramente regalarci riff e soli di tal foggia. Seguono gli spettrali scenari della titletrack. Ronnie Dio, sulle strofe del suo più classico piglio “in cadenza”, ci regala un altro saggio di “lirica rock”. Ed i barocchismi del perpetuo Iommi (dal quale il singer ha appena divorziato, allontanato perché accusato “of acting a little Hitler”) sono in questa sede rimpiazzati dalle zampate della sei corde di Campbell. Ma c’è anche la melodia dell’appassionante arpeggio di “Don’t Talk To Strangers”, di cui resta indimenticabile la cavalcata del solo, che, lanciata dagli acuti di Ronnie, guerreggia con le pesanti percussioni di Vinny “o’Animalo” Appice. “Straight Through The Heart” e l’inquietante ferocia di “Invisibile” (questo è davvero l’Heavy per eccellenza) riecheggiano le cadenze della già menzionata titletrack. “Shame On The Night” pone fine alle ostilità: sono ancora i graffianti acuti del folletto, qui in versione “rampollo del Maligno”, a lasciarci senza fiato. Ronnie aveva compreso molto bene come allettare il suo pubblico, non semplicemente riproponendo, ma esasperando con sonora violenza le atmosfere plumbee della precedente avventura coi Sabbath.
Se l’hard rock abbia mai davvero raggiunto una propria espressività artistica degna di menzione, sarà il tempo a rivelarcelo. Senza dubbio, questo “Holy Diver” rappresenta una delle più ispirate affermazioni d’un genere.
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