Avete mai, a volte, quella sensazione (a volte anche ingiustificata, altre volte no) di sentirsi soli, abbandonati, impossibilitati ad essere inglobati nella città (meglio se metropoli, meglio se sporca, meglio se alienante, meglio se grigia) in cui camminate, respirate, pensate?

Pensate allora come dovrebbe sentirsi Dirty Beaches, che no, non è una band, ma uno pseudonimo dietro al quale si nasconde il tormentato Alex Zhang Hungtai, uno che di case non ne ha mai avute. Taiwanese d'origine, ma nato in Canada come clandestino, ha più volte affermato di non avere una terra natìa, che le sue radici se le costruisce con quei pezzi di luoghi distanti che nel corso di una vita ti ritrovi nel cervello. 

Hungtai prova una nostalgia allucinante per qualcosa che non ha mai vissuto e te lo immagini vagare per le vie più squallide di una qualche metropoli d'oltreoceano. Una via illuminata dai ronzanti neon fucsia e lui che cammina con lo sguardo perso, mani nelle tasche del chiodo, jeans blu aderenti e sigaretta tra le labbra. Uno che è nato con il carisma da sex symbol maledetto (è praticamente un James Dean dai tratti orientali con la voce di un Alan Vega post-acidi e, nonostante la disperazione, la sua musica è qualcosa di fottutamente sexy), ma che non lo sarà mai perché alla comunicazione e all'interazione  preferisce l'espressione, che spesso si risolve in tragici e stranianti solipsismi nevrotici.

Dopo un bel po' di dischi alle spalle, Hungtai riesce ad esplodere solo con "Badlands", un eccellente incubo rockabilly lo-fi bagnato d'oscurità. Elvis gettato in un tritacarne, i Suicide improvvisamente colti da un raptus improvviso di sociopatia. 

E ora, anno 2013, "Drifters/Love Is The Devil", un doppio album che rifiuta la solita tendenza di Dirty Beaches a realizzare dischi cortissimi ("Badlands" non arrivava neanche alla mezz'ora) e che pare costruire con il suono quel patchwork di luoghi dimenticati, di ricordi, di sensazioni che l'autore vorrebbe mettere insieme per trovare, finalmente, la sua patria. Una patria sonora dove non puoi non immaginare città sgombre, cupe, fatte di fumo, di discariche e di rovine.

Un doppio album composto da "Drifters" e "Love Is The Devil": il primo disco più attento alla forma canzone e ad un approccio più accessibile, mentre il secondo orgogliosamente astratto, più strumentale ed atmosferico. Eppure, nonostante l'apparente divisione netta, i due dischi sono straordinariamente compatti ed omogenei tra loro (infatti, il mio consiglio, è di ascoltarli tutti e due di fila): suonano come un unico blues per anime in pena

Dimenticato solo in parte il sensuale rockabilly per malati terminali di "Badlands" (qui presente in un paio di tracce, tra cui l'ossessiva e straordinaria "Au Revoir Mon Visage"), questo nuovo lavoro ci getta a capofitto in sensazioni e suoni eclettici: blues, jazz, persino dolorose litanie per archi ("Love Is The Devil"), elettronica, ambient, risonanti e malinconici eco ("Like The Ocean We Part") divagazioni per chitarra sola ("Alone At The Danube River"), schizzi di follia senza speranza (ascoltare la meravigliosa "Mirage Hall", il fratellino meno appariscente di "Frankie Teardrop").

Grattacieli che si costruiscono e si distruggono con velocità impressionante, tra i quali spesso Hungtai parla d'amore, quell'amore semplice che potrebbe finire tranquillamente anche in una canzone pop. A cambiare è l'approccio: i suoi "I love you" (o meglio: YO TE QUIEROOOOOO) suonano come quelli di "Cheree" dei Suicide, forse sinceri, ma anche terribilmente inquietanti, delle minacce con il sesso trapiantato in gola. 

A dominare in questo esercito di generi, mondi e suoni è (fortunatamente), ancora una volta, la schizofrenia. Una tristezza repressa in procinto di esplodere e generare l'apocalisse.

Un disco personale, complesso ma non ostico, disomogeneo ma al contempo straordinariamente compatto. Un disco che sicuramente non piacerà a tutti e di certo non piacerà a chi è rimasto troppo attaccato a "Badlands". Ma è giusto così, proprio come deve essere.

"Drifters/Love Is The Devil" è il canto sguaiato e ardito di un uomo che deve ancora trovare il suo posto nel mondo, un assolo notturno sfrenato e marcilento allo stesso tempo. 

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