Sono salite, ponti e discese
e barche e ponti ancora
è terra dimenticata
da pagine intere
che ancora adesso non ci guarda
non ci parla
e non ci fa sapere

E' la misteriosa "Lusitania" tratteggiata dai versi di Ivano Fossati nell'ormai lontano 1990, giusto in tempo per fare da colonna sonora alla mia calata dai verdi promontori del Minho, profumati di eucalipto, alle aride distese di olivi dell'Alentejo (solo l'Algarve sarebbe rimasta "un fiore non colto"). Con il senno di poi e con la mia innata tendenza a "spaccare il culo ai passerotti" (similitudine di rara efficacia diffusa nel medio bacino dell'Arno, di significato più o meno equivalente a "spaccare il capello in quattro") sono costretto non proprio a smentire, ma in qualche modo ad aggiornare l'ultimo verso citato. Ebbene sì, almeno dal punto di vista musicale il Portogallo da diversi anni "ci parla e ci fa sapere" ben più di quanto ci si aspetterebbe da una così piccola nazione, dal passato glorioso ma piuttosto ai margini di quel gran calderone che molti chiamano con ossequioso rispetto "show business" mondiale.

Anche "world music" è una parola-calderone in cui viene fatto rientrare di tutto un po', ma il modo cui il Portogallo, favorito anche dalla sua posizione geografica di balcone sull'Atlantico, ha saputo assimilare l'esplosione della musica etnica a livello planetario, è una combinazione intelligente e particolarmente riuscita di elementi della tradizione nazionale (soprattutto il fado, ma anche danze contadine) e suggestioni esotiche la cui origine risale alle innumerevoli relazioni instaurate, fin dai tempi delle grandi navigazioni e dell'impero coloniale, con vaste zone del mondo, più o meno remote.

Tutto ciò ha prodotto una specie di rinascimento della musica portoghese, la cui unica ambasciatrice all'estero era stata per lunghi decenni la regina del fado Amalia Rodrigues, grandissima nella sua dolente intensità, ma tenacemente legata alla propria tradizione e quindi percepita dai più come fenomeno tipico del suo paese. Ciò che invece accomuna Dulce Pontes e i Madredeus di Teresa Salgueiro è un linguaggio più internazionale, in grado di perforare le corazze di diffidenza con cui il gusto medio tende a difendersi da tutto ciò che è troppo legato ad una cultura straniera. Completano il quadro delle affinità tra Dulce Pontes e Teresa Salgueiro l'inevitabile bollo di "erede di Amalia Rodrigues", le doti vocali fuori dal comune e un fascino gentile, assai diverso dalla bellezza puttanesca che ormai impera, e non solo nei calendari delle carrozzerie.

Differenze piuttosto nette emergono invece dal punto di vista artistico. La voce eterea e sublime di Teresa ti rapisce e ti culla come un'onda lunga dell'Atlantico; quella incisiva e sensuale di Dulce ti percuote, ti spazza come una mareggiata, sempre dell'Atlantico naturalmente. Il tappeto strumentale su cui si innalzano i perfetti gorgheggi di Teresa, a parte la recente inutile aggiunta del synth, è terso e cristallino, fondato sugli intrecci di una coppia di chitarre; l'inquieta e mutevole voce di Dulce è invece sostenuta, oltre che dalla presenza quasi costante di una chitarra acustica e di un classico quartetto d'archi, da un assortimento quasi petergabrieliano di insoliti strumenti etnici come l'harmonium basco (trikitixa) o l'arpa del Madagascar, tanto per dirne due.

Da molti considerato il capolavoro di Dulce Pontes, "O primeiro canto" giunge nel 1999 al termine di una progressione inarrestabile, che attraverso l'ottimo "Lagrimas" e l'altro capolavoro "Caminhos", in pochi anni ha elevato una volta per tutte questa grande cantante al rango di vera musicista, che a differenza di Teresa Salgueiro compone da sé una parte non trascurabile delle musiche, per di più con una cura certosina che non ti aspetteresti da chi si dichiara "più interessata alle sensazioni che alla tecnica". Il repertorio pop degli esordi, servito più che altro per farsi le ossa, è una macchia ormai completamente cancellata, anche se qualche purista un po' troppo severo tuttora glielo rinfaccia.

"O primeiro canto" è impostato sui quattro elementi primordiali, visti come punti cardinali e rappresentati ognuno da un brano posto in posizione strategica. L'avvio è sconvolgente: "Alma guerreira (Fogo)", ovvero il Fuoco. La tensione della voce di Dulce ci distoglie subito dall'illusoria impressione iniziale di placida ballata acustica: alimentate dalle folate del quartetto d'archi e dal sax dell'ospite d'onore Wayne Shorter, violente fiammate di acuti lancinanti si innalzano fino ad assumere contorni diabolici, tanto che nel finale a spegnerle interverrà addirittura una preghiera. Difficile non pensare alla "Danza rituale del fuoco" di Manuel De Falla, ispirata alle magie e ai sortilegi dei gitani andalusi. Dopo un avvio del genere, la sofferta malinconia del "Fado-Mãe", il più tradizionale del disco, appare quasi riposante. In "Tirioni" l'ossessiva ripetitività di uno sconsolato canto popolare è spezzata da prolungati respiri alla fine di ogni strofa. "O primeiro canto" è la metamorfosi di una filastrocca con lievi arpeggi di chitarra in un furibondo canto primordiale, con i tamburi di Trilok Gurtu che folleggiano in gara con una Dulce posseduta dal demone del ritmo tribale. Basta chiudere gli occhi per vederla ballare senza remore, proprio come accade nei concerti.

"O que for, hà-de ser (Ar)" è l'Aria, e la voce di Dulce sembra davvero rimanere sospesa per lunghi istanti a tracciare il disegno di una melodia di inquietante bellezza, che incatena l'ascoltatore proprio come l'"aria" di un'opera lirica. Accompagnano con eleganza classica e discreta il pianoforte e il quartetto d'archi. Il tempo di una fitta chiacchierata paesana ("Modinha das Saias") con le comari (Maria João e Gemma Bertagnolli), e il clima ritorna quello drammatico del fado, con "Garça perdida", aperta dalle acrobazie flamenche dell'ottimo chitarrista Jesse Cook e proseguita da Dulce con voce che a tratti pare quasi rotta dalla commozione. "Velha Chica" è un delizioso duetto con l'angolano Waldemar Bastos, che per la sua voce nasale fa pensare ad un Pino Daniele africano, nero non solo a metà e naturalmente del tutto sconosciuto a queste latitudini. Dietro un simpatico ritratto di vecchietta si coglie un quadro della povertà e della sofferenza della lontana Angola, paese di lingua portoghese. "Ai Solidom", con i suoi scoppiettanti fiati da banda tzigana, sembra nata da un incontro con il pittoresco mondo slavo di Goran Bregovic.

"Suite da Terra" trasmette le vibrazioni di una Terra viva, che respira all'unisono con i ripetuti rintocchi di un magico arpeggio di chitarra che sembra proiettato verso l'infinito, una trama regolare e rada che lascia ampi varchi per le fantasiose invenzioni della voce di Dulce e per gli incredibili suoni "liquidi" delle percussioni di Trilok Gurtu. Forse il momento più incantato di un album che ne ha parecchi. Uno sguardo fugace verso l'entroterra contadino con la corale "E' tão grande o Alentejo" ed ecco che subito si sprigiona la fresca energia di "Pàtio dos Amores", un turbine di voce e chitarra, vivace come una "Villanesca" di Enrique Granados e capace di indurre anche i più refrattari (come il sottoscritto) al ballo, o meglio a qualche goffo movimento non ben definito. Con "Porto de màgoas" siamo di nuovo profondamente immersi nella struggente malinconia del fado; non è difficile che scorra qualche lacrimuccia, giusto per preparare il terreno a quella che chi parla dotto chiamerebbe la catarsi finale, che si compie nel segno dell'Acqua. "Ondeja (Agua)" è un trionfo di trasparenza e purezza, un'incursione della terrestre Dulce Pontes negli empirei di regola frequentati dall'angelica Teresa Salgueiro, e soprattutto l'ennesimo saggio, forse il più strabiliante, della sua duttilità vocale, che si esprime in una serie di vocalizzi così espressivi da non aver bisogno neanche di un testo. Come nell'altra "Aria" del disco, il sobrio apporto del pianoforte e del quartetto d'archi completa mirabilmente il quadro, e ci congeda dall'ascolto lasciandoci abbagliati e un po' storditi da tanta bellezza.

Concludendo, molto più di un disco: piuttosto un'esperienza dei sensi che aiuta a ritrovare un rapporto stretto con la Terra, con la materia concreta rappresentata da quei quattro elementi e dal loro miscuglio, quel fango che nella copertina ricopre Dulce Pontes trasfigurandola in uno strano essere, forse di epoca preistorica, ma sicuramente umano.

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