I quattro compari provenienti dai quattro angoli d’America, da poco conosciutisi al Trobadour di Los Angeles e da subito messisi a suonare insieme, prima per accompagnare Linda Ronstadt e poi in proprio, amavano a quel tempo saltare sulla scassata jeep di uno di loro, il chitarrista Bernie Leadon, e giungere verso l’alba dalle parti di Palm Springs, a ridosso della catena di San Jacinto e a un passo dal deserto del Joshua Tree, per osservare il mirabile panorama, parlare del presente e del futuro rollandosi in pace grosse canne e tracannando qualche birra.
In un’occasione ci andarono con un fotografo, che avevano da realizzare la copertina del loro album d’esordio … e allora questa qui accanto deve essere una delle tante raffazzonate istantanee di quella sessione: eccoli perciò sulla cover del primo 45 giri di carriera, capelli al vento ed espressioni fumate, a fissare chissà cosa stravaccati fra le pietre di quel semi deserto californiano, già pieni di talento e ambizione ma ancora sconosciuti e squattrinati.
E subito molto bravi a lavorare insieme, facendosi però anche strane idee: il produttore Glyn Johns, a loro affidato per farli esordire discograficamente, aveva capito tutto e spingeva per le ballate, per le canzoni corali, per le chitarre acustiche, per l’alternanza delle voci soliste. Loro invece si sentivano, e continueranno a sentirsi sempre, una rock’n’roll band e questo a torto: il successo è venuto grazie alle ballate… e poi per fare del rock ci vuole ad esempio un batterista adeguato e Don Henley, fra i suoi tanti meriti, non aveva certo questo: troppo rigido e senza il nerbo sufficiente.
“Take It Easy” è la loro prima canzone d’eccellenza, apripista del primo album e di gran lunga suo miglior episodio. Il capogruppo Glen Frey l’aveva composta insieme al vicino di casa Jackson Browne, che abitava giusto sopra di lui in un condominio di Los Angeles. Il belloccio Browne s’era mollato con Nico (quella dei Velvet Underground) e, trasferitosi da New York alla fermentosa Città degli Angeli di inizio anni settanta, aveva problemi di donne (troppe… sette, a quanto rivela il testo).
Il suo nuovo amico Frey si buttò a pesce su tale situazione ed aggiunse di getto l’immagine di lui, fermo ad un crocicchio di una cittadina dell’Arizona, che vede arrivare una sventola su una Ford decappottabile e non perde tempo a rimorchiarla. Era la strofa che mancava alla canzone, indispensabile a renderla meno pensosa e riflessiva come da tipico stile di Jackson. Il risultato è che oggi a Winslow, Arizona, un posto senza arte né parte come tanti sulla Route 66, passando ad uno dei suoi incroci si può ammirare una statua a grandezza d’uomo di un tizio che guarda il traffico, sul marciapiede e appoggiato a un lampione!
Per saggiare il valore degli Eagles basta confrontare questa registrazione con la versione di Jackson Browne della stessa canzone emersa pochi mesi dopo, in apertura al suo secondo album “For Everyman”: musica è testo sono identici, l’arrangiamento non è male con un’ondeggiante steel guitar a circondare l’emissione baritonale del cantautore, ma la resa generale fa rimpiangere la brillantezza e la gaiezza della scintillante performance delle Aquile.
Il modo molto dinamico e dardeggiante di organizzare i cori, con quegli inserimenti improvvisi a metà delle frasi (solo la Easy finale nelle molte ripetizioni del titolo, ad esempio), l’eccellenza di almeno tre dei quattro timbri vocali (in ordine d’importanza: il baritenore scuro del batterista Don Henley, il tenore pieno e chiarissimo del bassista Randy Meissner, il baritono del chitarrista Glenn Frey e l’altro baritono Bernie Leadon), l’argentino intrecciarsi degli scampanellii degli strumenti elettrici con lo sferragliare di quelli acustici, l’eccellente assoletto country di Leadon sulla sua fedele Telecaster, pulito e massimamente cantabile… tutto congiura perché il discreto, ma tutt’altro che epocale contenuto motivico del brano riceva un trattamento così qualitativo, corale e fresco da elevarlo a piccolo inno made in USA, rinvigorendone anche il significato del testo, disimpegnato ma gioioso e simpatico, solare e rotolante.
P.S.: il retro del 45 “Get You In The Mood” è inedito su album: un rock blues di Glenn Frey alla californiana, cioè rotondo e sornione, discreto e nulla più ma comunque superiore ad un paio di episodi messi a riempitivo nel primo album.
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