Eduardo De Filippo – Natale in casa Cupiello

Anche io, nel mio piccolo e per quel che può interessare, ho fatto - a suo tempo - i miei conti con Luca Cupiello.

Eduardo, quei conti, li ha fatti per tutta una vita. Dal Natale del ’31, quando Luca Cupiello venne alla luce al teatro Kursaal di Napoli mercè le sapienti mani della compagnia del "Teatro umoristico i De Filippo", e poi l’anno successivo quando, a quell’atto unico, vi aggiunse un prologo (il primo atto) e via, via, fino al ’34 quando l’epilogo del terzo atto sembrò – sembrò! – porre fine a quel lungo travaglio.

“Parto trigemino con gravidanza di quattro anni” ebbe a definirlo lo stesso Eduardo.

E, invece, ancora nel 36/37 e, poi, nel ’43 e negli anni successivi, almeno fino al ’62, Eduardo e il suo Luca continuarono a confrontarsi. Finché, nel ’77[1], Eduardo lasciò che Lucariello, alla fine, morisse.

Luca Cupiello, quindi, nasce lì, in quel secondo atto, cuore e corpo già formato del capolavoro di Eduardo, ed è da quella sua vera prima apparizione - io credo - che bisogna cominciare ad avvicinarsi a lui.

Qui Luca ci è presentato dalle parole sprezzanti di sua moglie Concetta, mater dolorosa, ed ha già messo in moto, per inconsapevole goffaggine, il meccanismo che porterà alla definitiva deflagrazione del dramma familiare, consegnando a Nicolino la lettera nella quale la figlia Ninuccia confessa il suo tradimento. Intanto, Tommasino – recalcitrat filius – sta già litigando con lo zio Pasquale mentre Vittorio, l’amante di Ninuccia, si è introdotto ingannevolmente in casa. Così, quando Luca finalmente appare sul proscenio, tutte le pedine, quasi come in un’apertura all’italiana, sono già predisposte sulla scacchiera pronte a seguire lo schema ineluttabile a cui la logica del gioco le ha destinate, a partire dalla prima mossa, di nuovo inconsapevole e goffa, di Lucariello che impedisce a Concetta di cacciare Vittorio.

Così eccolo, finalmente, Lucariello inetto e sognatore, uno Zeno Cosini senza la corazza dell’ironia, un principe Myškin senza la luce della Grazia, inconsapevole distruttore armato di implacabile e feroce candore (“un bambino nel corpo di un uomo, l’uomo non c’è più e il bambino è vissuto troppo a lungo”, farà dire Eduardo al dottore venuto al suo capezzale nella versione del ‘62), un novello Sisisfo che fa e disfà il suo “Presebbio” – quello reale di cartapesta e quello immaginario della sua famiglia – con instancabile protervia fino a quello splendido e potentissimo finale in cui i tre “adulti bambini” portano i doni ad una Concetta disperata e catatonica mentre, fuori, i due uomini “se stann’accidendo” per Ninuccia, smembrando, come lupi, quel che resta della famiglia Cupiello.

Inutile dire che, in quel freddo Natale del 1931, mentre l’idiozia di regime si baloccava nella menzogna del mito “Patria, Famiglia e Religione”, quel tragico sberleffo, quel potente schiaffo in faccia di “Natale in casa Cupiello” non potè che lasciare il segno.

Fu un successo, il primo vero, grande successo (dopo quello ancora effimero di “Sik-Sik, l’artefice magico”) per i fratelli De Filippo: la commedia restò in cartellone fino a maggio e, così, Eduardo si decise ad ampliarla.

Il primo atto fu facile: un prologo che – in fondo – non molto aggiunge agli elementi del quadro. Eduardo si limita a definire con più cura le dinamiche tra i suoi personaggi con la consueta maestria nella costruzione dei dialoghi (con quel napoletano seicentesco così curato e comprensibile) e mette in scena l’antefatto della lettera di Ninuccia e di come Lucariello la consegni nelle mani di Nicolino.

Però il maestro napoletano mette anche a segno due colpi magistrali. Il primo è: “Lucarie’, Lucarie’… scètate songh’e nnove!.” Ripetuto come mantra così tante volte anche nelle nostre case, in cui Lucariello, novello Sigismondo di Polonia o falso Enrico IV, appare dal primo momento come mediatore tra realtà e sogno, incapace di scegliere tra l’una e l’altro fino allo schianto finale. Il secondo è: “Nun me piace ‘o Presepe!” l’altro mantra sul quale si incardina lo scontro ottuso e frontale tra padre e figlio, vero nucleo tragico e ferita, sgorgante sangue, dell’opera. Scontro combattuto intorno a quel “Presebbio” feticcio e simbolo di tutto quello che avrebbe potuto e dovuto essere e che, da adesso, troneggia muto e protagonista al centro del dramma.

E “Natale in casa Cupiello” era già perfetta così, una satira straziante che scava fino alle ossa; invece no: la struttura drammaturgica prevede un terzo atto e, Eduardo, aveva ancora qualcosa da dire e da far dire al “suo” Lucariello[2]. Così è qui, in questo terzo atto, che i conti con Luca Cupiello debbono essere fatti. Il terzo atto rimescola le carte e cambia tutte le prospettive e, se questo sia un bene o un male è tutto da decidersi, come capì per primo il fin troppo sottovalutato Peppino[3] che, per questo, litigò – ancora una volta e per tante altre volte – col fratello maggiore e primus inter pares della famiglia.

Quando quel sipario si riapre sono passati due anni nel tempo dato da vivere ad Eduardo ma solo tre giorni nella vita di Luca Cupiello. Luca è stroncato ma non domo, agonizzante a letto, circondato dal coro rumoroso dei vicini, pronto alla sua ultima battaglia.

Luca, l’inetto, l’idiota, il principe dormiente è diventato don Quijote, il “costruttore di sogni” (riprendendo la splendida definizione di Propp) schiantatosi contro i mulini a vento. La realtà sembra aver vinto ma Lucariello/don Quijote sta solo prendendo tempo; rifiata mentre il dottore distrae pubblico e coro e, poi, svia tutti col racconto della “pasta e fagioli”, mentre coi suoi ultimi respiri si appresta a mettere a segno i due colpi finali che gli consegneranno il Trionfo: prima salva Ninuccia distruggendo definitivamente il suo matrimonio-prigione e, poi, salva Tommasino offrendo il suo corpo quale agnello sacrificale per la redenzione del figlio. E, quando, Eduardo/Lucariello, raccolto quel “si, (mi piace)” finale, si stringe, muto e trionfante, al petto del figlio si capisce che nessuno, nessuno mai più, potrà dare carne e sangue a Luca Cupiello come Eduardo.

Ed è qui, tra i due finali (quello del secondo e quello del terzo atto) che sta tutto lo iato fra Arte e vita, tutta la contraddittoria potenza balsamica della Bellezza, tutta l’escatologia salvifica di quella menzogna portatrice di senso che noi chiamiamo Arte. Perché Eduardo non si arrende al caos informe della vita, non si limita ad osservare con cinico distacco il dolore dei vinti; lui sa che l’Arte deve dire la Verità ma deve anche costruire una speranza; sa che in quegli ultimi, in quel popolo, brucia una fiamma alimentata da valori di solidarietà umana e da consapevolezze arcaiche e potenti in grado di sovvertire anche i sistemi sociali più ottusi e disumani.

Insomma Eduardo sa, o meglio crede - e crede fermamente - che la creazione artistica sia sempre un atto politico, uno strumento creatore di riscatto: a casa di Gennaro Jovine la nottata deve passare e sicuramente passerà, i figli di Filumena Marturano cresceranno “tutt’eguale”, Alberto Saporito smaschererà l’ipocrita “normalità” dei suoi vicini, Antonio Barracano salverà Rafiluccio col suo sacrificio e nonostante la ribellione del dottore e via, via così.

Anche Eduardo è un costruttore di sogni. Ma sono sogni lucidi, frutto di una visione.

Una forza spinge la Storia, ma quella forza ha bisogno di una spintarella; quella forza potremmo chiamarla storicismo dialettico, materialismo storico o astuzia della Ragione, o come cavolo ci pare ma il mio problema è che ai miei occhi (e saranno pure miopi, forse, questi occhi) l’astuzia della Ragione del marxista riluttante De Filippo[4] è troppo simile alla “provvida sventura” del cattolico militante Manzoni.

Così, eccomi seduto sulle macerie dei miei sogni troppo facilmente e troppo spesso tramutatisi in incubi, a fare i conti con Lucariello/Eduardo e con quel suo trionfo che, oggi, mi appare troppo forzato, con quel riscatto che sento come prospettiva troppo ottimistica. La nottata non passerà, dovrà essere illuminata dallo scoppio delle bombe, Lucariello non salverà nessuno, ed io me ne resto qui, seduto in seconda linea, ad ascoltare Charlie Parker.

E mi infastidisce doverla chiudere così.

Dedicato a quell’anima fuggitiva di @cosmic joker : ho parlato di Teatro senza averne mai, davvero, saggiato la durezza delle assi; potrai perdonarmi?


[1] La versione del ’77 è quella che tutti conosciamo ed abbiamo visto, trasmessa dalla RAI e, poi, riversata in video. Io la considero la versione definitiva ed è quella alla quale, da ora in poi mi riferirò per le mie considerazioni.

[2] Sulle motivazioni, le riscritture, il lavorio e i dubbi da cui è nato il terzo atto andrebbe scritto molto di più e andrebbero poggiate le mie affermazioni su più adeguate ricerche e testi (lettere, interviste, interventi critici) ma questo appesantirebbe troppo queste mie piccole annotazioni trasformandole in un saggio che né io ho voglia di scrivere, né tu – caro lettore – hai certamente voglia di leggere.

[3] Peppino riteneva, probabilmente a ragione, che l’eccessivo patetismo del terzo atto togliesse mordente al perfetto meccanismo tragico e comico della commedia. Peppino capiva con acutezza i meccanismi del Teatro ma non capiva i percorsi del genio di suo fratello.

[4] So, e me ne scuso, che quel “marxista” appioppato a Eduardo è una forzatura: ben più sfumata e anche contraddittoria è la posizione politica di Eduardo. Bisognerebbe andare dai filmati elettorali del’48 al suo lavoro di indipendente di sinistra in Senato a favore dei detenuti. Ma, ancora una volta, questo atterrebbe più ad un saggio che a queste brevi note sparse. Che fosse nel campo antifascista è sicuro, che fosse di sinistra – a me pare – pure. Dirlo marxista non so, marxista reticente più che riluttante, magari; ecco a me piace pensarlo così.

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