Pare che l'incredibile Hulk esistesse per davvero ed avesse anche un nome: Elias.

Si fece largo a stento, nonostante la sua imponenza, tra la paludi meridionali dell'Inghilterra della fine degli anni sessanta, quando la lezione esoterica dei grandi bluesman di colore era sabotata dall'innesto di nuove pratiche sciamaniche quali l'hard rock e la psichedelia, meno rispettose delle operazioni chirurgiche di dottori deontologicamente più corretti come John Mayall.

Il protagonista stavolta è "Big" Pete Thorpe, uno spilungone dai lunghi capelli biondi che si aggirava ululando nelle campagne brumose. Assieme al chitarrista Granville Frazer cercava di sopravvivere suonando nei concerti del sud ovest britannico come spalla dei famosi gruppi londinesi quali Spooky Tooth o Small Faces. L'ingresso del "cittadino" Neil Tatum alla solista li fa divenire meno verdi e più forti, riuscendo nel 1969 a portarli all'incisione di questo buon "Unchained" intriso di un rock blues ad alto potenziale psichedelico.

Il disco riesce solo a dare un'idea di quello che potevano essere gli Elias Hulk dal vivo: una banda di assoluti freaks a loro agio nelle comuni hippies, dove nasceranno i grandi Magic Muscle La chiave di volta è data dalla coppia di chitarristi, con Frazer che sostiene le trame ritmiche e Tatum che lancia la sua chitarra in assoli ora lisergici ("Antology of Dreams") ora heavy ("Nightmare"). La voce di "Big" Pete asseconda queste due anime riuscendo ad essere meravigliosamente indolente e delicata come pure energica e dura. Come ad esempio in "Ain't Got You" governata dal basso pulsante e dagli effetti wah wah delle chitarre oppure "Yesterday's Trip" sostenuta dal fuzz bass che governa le pulsazioni cardiache fino all'impressionante risveglio del gigante in una danza sabbatica.

Pur essendo un bestione pare raffinato questo Hulk! Come altrimenti descrivere una ballata come "Been around too long" percorsa dal delicato tremolio jazzato della solista e la malinconica "Free", con la slide che attraversa dolcemente il tessuto armonico di una canzone che resta nella mente come il residuo acido di una pasticca troppo forte. Ascoltatela nelle cuffiette durante una passeggiata sul bagnasciuga di un litorale d'inverno e avrete l'impressione di essere dall'altra parte della Manica mentre il mare si ritira, lasciandovi padroni della spiaggia e perciò ancora più soli. Ma le sorprese non sono finite perché in "Delphy Blues" Neil Tatum con la sua chitarra elettrica ci darà l'illusione del suono del sitar in uno strumentale portato al parossismo dal ritmo frenetico delle percussioni.

Oggi dobbiamo accontentarci del disco e di una produzione scadente che non riesce a restituire appieno l'impatto lisergico di un gruppo la cui dimensione reale era quella live. E difatti "Big" Pete si stancherà presto delle sale di incisione per trasferirsi in Costa del Sol a fare davvero il frikkettone a tempo pieno

Magari se lo incontrate lungo una di quelle spiagge dorate fatevi raccontare la storia di Elias Hulk.

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