Questo è il disco giusto per (provare a) far ricredere i detrattori cronici di Elton, quelli che non riescono a togliersi di mente l’effettiva immagine da vecchia zia assunta dal nostro oramai da decenni; gli stessi che non riescono a non fare di ogni erba un fascio, a proposito della notevole produzione di musica mediocre pubblicata negli anni ottanta e novanta (e basta… perché è da vent’anni a questa parte che stanno uscendo a suo nome buoni, talvolta ottimi, in un paio d’occasioni stupendi lavori).
L’album è dal vivo ma… dentro uno studio d’incisione, quello newyorchese della sua casa discografica americana. C’è il pubblico, probabilmente non più di un centinaio di persone… lo si sente chiaramente quando partono gli applausi, convinti ma sgranati. L’ambiente è perciò ideale, perché il suono ha così la possibilità di essere perfettamente controllato, mentre d’altro canto un po’ di gente per lasciarsi andare e spingere con l’acceleratore è pur presente… Ne viene fuori una performance autenticamente esplosiva ed elettrizzante, niente a cui possano avvicinarsi i successivi lavori dal vivo pubblicati in carriera.
Elton qui ha ventitré anni e mezzo, è agli inizi della sua storia, clamorosamente nel pieno delle forze e dell’ambizione. Sta d’altronde per finire questo suo anno magico, nel quale è riuscito ad emergere pienamente e definitivamente dall’anonimato, facendosi un gran paiolo (tre album pubblicati: l’omonimo, “Tumbleweed Connection” e la colonna sonora di “Friends”). La voce è incredibile, alta e penetrante e stabile e piena, potente anche in falsetto, in grado di reggere ogni forzatura. Il suo pianismo è preciso, torrenziale, un condensato irresistibile di rhythm & blues, Beatles, jazz e vaghi riferimenti classici di gioventù. Il repertorio, estratto dai quattro dischi incisi fino a quel momento più un inedito che apparirà sul quinto più una cover dei Rolling Stones, è già più che corposo.
L’Elton giovanotto è dinamite, un fiore sbocciato, anzi una santabarbara spalancata, infatti regge perfettamente questa primigenia formazione a trio, con solo una sezione ritmica basso e batteria (e cori qui e là) a supportarlo. Il “concerto” lo si beve tutto d’un fiato, l’uomo non si risparmia e i suoi accompagnatori lo supportano in piena adeguatezza. Curiosità:
_Il concerto durò un’ora e un quarto e furono eseguite tredici canzoni. Di queste solo sei finirono nel 33 giri pubblicato ad inizio 1971, poi diventate sette in una riedizione del cd fatta a metà anni novanta.
_Elton si ferì a un dito durante l’esecuzione fluviale e tonitruante di “Burn Down the Mission”, la tastiera dello Steinway a fine spettacolo era imbrattata di sangue dappertutto.
_Gli americani, sempre esotici, non ce la fanno a leggere le date anteponendo il giorno al mese, quindi per loro quest’album è 11-17-70. Poveri cristi.
Carico i commenti... con calma