Escatologia partenopea.

“Canti e musiche scritti nel cemento” è il sottotitolo di un album che affonda le sue radici nella napoletanità più sincera ed arcaica: un recupero culturale, prima ancora che artistico, di una Napoli che riscopre la sua identità, la sua essenza più profonda, oltre gli spauracchi e gli stereotipi di una città svuotata e sbiadita ombra di una Napoli che il tempo potrebbe cancellare, di una Napoli fieramente antitetica a quel frutto di perversa degenerazione che l'autore stesso definisce napoletanesimo, ossia “l’ovvio, il pensiero e la parola ammuffita, la famosa cartolina folclorica a cui da secoli la [...] città viene sottoposta e si sottopone.”

“Napoletana” si aggiudica l'ambito premio Tenco edizione 2009. E meritatamente, aggiungo io. Che si tratti di un'operazione di cuore, del resto, lo si capisce dalla scelta di incanalare l'urgenza comunicativa in uno spoglio e minimale folk, scevro dagli eccessi e dai barocchismi di orchestrelle ed orchestrone che ieri ed oggi infestano lo spesso irritante carrozzone della musica napoletana.

Richiamante fin dal titolo la raccolta dello storico cantore napoletano Roberto Murolo, “Napoletana” è un tributo alla canzone napoletana, una manciata di “invocazioni in scala minore, figlia del tetracordo greco, echi di una remota metrica della misericordia”: un suono povero, ma colto e raffinato, prezioso in ogni suo frangente. Fanno tanto la sensibilità di un artista come Enzo Avitabile, l'amore per la sua terra, la sua profonda cultura musicale, frutto della sua attività di docente universitario di etnomusicologia ed arricchita dalla recente esperienza con i Bottari.

Un folk dal sapore mediterraneo, un ensembe ridotto all'osso che, oltre allo stesso Avitabile, vede le carezze del violoncello vellutato di Marco Pescosolido, i preziosismi della chitarra acustica di Umberto Leonardo e le percussioni, mai invadenti, del fratello Carlo Avitabile. Si guardi, a tal riguardo, l'uso moderato che Avitabile fa del suo strumento prediletto, il sax, rispetto allo spazio concesso ad altri strumenti, sempre da lui suonati, come il piffero e l'”arpina”.

Intensa, e mai sopra le righe, l'interpretazione vocale dello stesso, che pittura scenari di altri tempi, fra malinconia e nostalgia, in “perfetto napoletano”: una “lingua” che ancora una volta dimostra la sua intrinseca bellezza, la sua vocazione poetica, la sua congenita musicalità.

Avitabile dà voce ai pezzenti, restituisce lo scettro alla povera gente, ridando la vita a suoni, parole, rime, arie che rischiano di essere sotterrate dall'asfalto e dal cemento, come suggerisce il sottotitolo dell'opera. Come viene ben spiegato nelle note interne: “Voci di passioni, tracce di tradizioni, suoni di devozioni per una metropoli umanissima, e nobilmente popolare, che non ha mai strappato la natura dal suo cuore. Un cuore che ricorda il grano che cresce e la primavera che nasce”.

“Don Salvato'” regala autentici brividi, trasportata dal suono cristallino dell'arpa: un suono profondamente malinconico e pungente come le spighe del grano. Il canto evocativo di Avitabile, in ogni sua sfumatura, modulazione, vagito, comunica all'ascoltatore reali emozioni e partecipazione. Le liriche, semplici ma al contempo ricercate (nel voler afferrare la genuina semplicità del volgo popolare) tratteggiano i contorni di immagini commoventi, culminanti infine in una sentita invocazione in lingua latina.

Il sacro e il profano che si sposano nella magia senza tempo di una musica che scaturisce direttamente dal cuore e parla direttamente all'anima: forse s'indugia troppo sulle medesime ambientazioni, sui medesimi umori, forse si poteva fare di più in sede di arrangiamento. E se qua e là gli animi meno propensi ad un tal genere di musica potrebbero rimanere perplessi innanzi a passaggi forse mielosi, a melodie forse già sentite perché vecchie come il mondo, come non rimanere rapiti innanzi alla splendente semplicità di una preghiera come “Ca nun mancasse màie o sole”? Come non farsi coinvolgere da una arabeggiante “Amaro nunn' ess'a essere maje”?, l'episodio più vivace del lotto, quasi tarantolata nel suo incedere ipnotico ed incalzante? E come non commuoversi alla voce solitaria, sconsolata de “Il lamento dei mendicanti”, per solo arpa e violoncello?

Infine: il silenzio che precede “Carmela”, l'intensa rivisitazione della storica canzone firmata da Sergio Bruni con Salvatore Palomba. Il brano, autentico atto d'amore, tributo nel tributo alla propria terra ed alla propria cultura, emblema di una weltanschauung disperatamente rivendicata, ci riporta alle medesime sensazioni della “Don Salvato'” che aveva aperto l'album e che rimane l'apice dell'opera: con “Carmela” si chiude finalmente il cerchio, cullati dal medesimo passo ipnotico dell'arpa, incantati dalla medesima eccelsa interpretazione di Avitabile.

A questo punto temo di dovervi della spiegazioni: come dunque giunsi a tutto questo? C'era da parte mia bisogno di nuove frontiere, c'era bisogno di riassaporare l'entusiasmo della scoperta, della verginità musicale. Per questo ho deciso di rinascere, fuggendo all'Inferno e ripartendo dagli antipodi di me stesso: la canzone napoletana.

Eppure una notte in TV, commosso innanzi ad una “Don Salvato'” dal vivo, in uno degli oramai rari momenti di lucidità della nostra televisione, un seme fu gettato in me. Nei giorni successivi ho cercato informazioni su questo artista che conoscevo solo di nome, che poi ho scoperto essere un rinomato sassofonista ed un apprezzato cantautore. Ma il suo jazz, il suo funky, il suo soul non mi interessavano, ho by-passato i suoi anni ottanta, i suoi anni novanta e suoi duemilazero, per pervenire a quello che forse era il solo suo lavoro che potesse andare incontro alle mie corde.

Dal folk apocalittico alla canzone napoletana? Purtroppo sì. Ma pensiamoci bene: se David Tibet fosse stato un bravo guaglione napoletano, si sarebbe discostato poi di tanto da queste sonorità? Non avrebbe scritto pure lui il suo “Nav Ner se Magnàin u Ciel”? E forse Napoli non è meno città dell'Apocalisse di una Babilonia, di una New York, Londra o Kathmandu? La Napoli apocalittica non a caso scelta da Curzio Malaparte come palcoscenico per l'atto finale dei suoi lavori più significativi, ossia “Kaputt” e “La Pelle”?

O io, come uno spaesato viaggiatore (una notte d'inverno), mi ritrovo solo a leggere un capitolo di un libro più ampio scritto dentro di me?

Carico i commenti... con calma