"Jannacci? Ah si, si l'ho sentito ancora, quello di "Vengo anch’io no tu no? Ma perché? Perché no!" Ah si aspetta anche quell’altra che fa, "Perché ci vuole orèèècchioooooo, tarattatatterooooo, tarattattaaaa, dentro al secchio..." Si, si Jannacci, ah ah ah, fa ridere... Ah faceva? Perché? E' morto? Ah ah ah, non sapevo, mi spiace." Non sapeva, 'sto coglione. E ride... Ma poi che cazzo ridi? (penso io) E poi?… Cosa ti spiace? E poi basta, non sanno più niente. E "Ho visto un re"? Macché. Nemmeno Dario Fo, mai sentito nominare… Premio Nobel per la letteratura nel novanta e qualcosa? Ah no? Coglione due volte!

Già, perché Jannacci rimane e rimarrà sempre per il qualunquismo radiomediaticodimassapausinianoanchesevascofapiufigo, un putacaso di pirla (come direbbe lui), passato di lì per il bianco e nero del tubo catodico, in epoche ormai remote, che cantava qualche cosa di divertente. E’ così e basta. E' l’etichetta che conta nell‘ex Bel Paese.

Jannacci? (ripenso io) Possibile che non sanno nulla di Jannacci? Quello di “Vincenzina e la fabbrica”, “Il volatore di aquiloni“, “Musical“, “Io e te”, “Lettera da lontano“, “Parlare con i limoni“, “Sei minuti all’alba”, “Il gruista“, “Ragazzo padre“, “Quando il sipario calerà“, “Soldato Nencini”, “Giovanni Telegrafista”, “Il Duomo di Milano“, “La fotografia“ “Come gli aeroplani”, “El me indiriss”. Ma si certo, Jannacci (penso io e rincaro), quello dei disgraziati, degli operai sul tornio, dei morti per mafia, delle puttane, dei fuori posto, dei barboni, dei mezzi malavitosi, dei diversamente uguali. Degli scomodi insomma.

Questo era un geniaccio, con la sensibilità di un cardiochirurgo, te la sputava lì fuori sul piatto, dai suoi 59 denti un po’ furbescamente ingenua ma palese, con quel suo sorriso strafottente e autentico. Stralunato ma deciso. Energico ma sognatore. Un altro incompreso, snobbato e marchiato come giullare, inetto e con la dislessia da sgrammaticato, che non si capisce niente quando parla e canta. Coglioni cinque volte! Non è che non si capisce, se negli ultimi quarant'anni stavate zitti, si capiva bene. Solo che non avete avuto voglia di capire... come al solito. Era mentalmente jazz, maestro d'improvvisazione.
Talmente incompreso da far paura anche a Mamma Rai che per tener botta all’autunno caldo, neppure “Ho visto un re” gli ha fatto cantare nelle fasi eliminatorie a Canzonissima 1968. Troppo politicizzata; meglio “Gli zingari”, così bella e struggente, ma criptica e indecifrabile da non passare il turno. Tze... non si capisce... Coglioni venti volte! E' solo che non avete avuto voglia di capire... come al solito. Come al solito la stessa itaGLiettina bigottosa, catechista e mielosetta di Al Bano, di Morandi, del Reuccio e di Orietta Berti.

"Ma va a caghèr ti e Cansonissima!" Questo pure lui era avanti, altro che uno che fa sempre il pirla.

E poi tra una comparsata e l’altra passa un po’ di tempo. Quelli che… i riflettori tornano timidamente ad illuminare la stella di Enzo, prima di riconsacrarlo a inizi ottanta. Quelli che… nel 1977 “Secondo te… che gusto c’è?”. Una macedonia di buonumore e riflessione, avanspettacolo e teatralità, goliardìa e drammaticità, spaccati di periferia, urbana e suburbana de la Milàn di uperari e di poer Crist, de chi se copa e de chi el mör de disgrassia o de malatìa e de chi el tira a campà, de chi però el fa anca üna risada e ’l fa l’amur per büta via la tristèsa.

Un dischetto di mezz‘oretta o poco più, suonato da gente semplice, ma professionale come Enzo, un dischetto di musica non certamente prolissa e ridondante, musica per tutti, gradevole, due spruzzate spartane di jazz (perché alla fine é corretto dimostrare di esser jazz anche fuori) a riassettare il disimpegno. Il polipo De Piscopo alle percussioni, il magistrale De Filippi agli strumenti a corda e il fratello meno noto di Dario, Alberto Baldan Bembo alle tastiere. Qualche altro nome non troppo conosciuto citato sul retro copertina dell’LP a colmare con strumenti a fiato e bassi, ma sostanzialmente si, direi che ci si può fidare di loro.
E poi chissà perché tutto mi riporta sempre irrimediabilmente al tizio di qualche anno prima che vide quel re da non far rattristare, perché sempre allegri bisogna stare.
E’ il suo sorriso enorme e agrodolce me lo ha insegnato a stare allegro. O almeno a tentarci.

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