La fotografia  non mostra la realtà, mostra l'idea che se ne ha

(Neil Leifer)

 

Il reale non è mai dato, ma viene sempre costruito. Il senso della realtà è dunque qualcosa che si apprende, che si eredita, e che poi si modifica, e così via. Oggi siamo in una fase di modificazione della realtà, che viene accelerata per mezzo delle tecnologie e al contempo incrementata

 

(Paul Virilio)

 

Cinema gremito, ieri sera, per la visione del documentario "Videocracy" del filmaker svedese, ma di chiare origini italiane, Erik Gandini, sul quale mi sembra opportuno avviare delle riflessioni che coinvolgono il rapporto fra arti visive ed analisi sociopolitica, sperando in commenti rispettosi ed incentrati sull'oggetto della recensione piuttosto che su attacchi gratuiti ed apodittici alla mia persona, purtroppo registrate da parte delle frange meno moderate degli utenti del sito.

Presentato al festival di Venezia, il documentario segue con tendenziale distacco tre microstorie intrecciandole con la macrostoria italiana degli ultimi trent'anni: quella del giovane operaio bresciano Ricky, che vive con la mamma nella periferia di Sernico, e si allena quotidianamente per diventare un personaggio televisivo, cercando di sintetizzare gli stili dei propri modelli di riferimento, J.C. Van Damme e Ricky Martin; di Lele Mora, noto agente di spettacolo che dalla sua splendida villa in Costa Smeralda controlla le sorti del mondo dello spettacolo italiano, mediante la promozione di giovani adulti ed adulte nel jet set televisivo e nelle discoteche; di Fabrizio Corona, imprenditore titolare di un'impresa che segue e fotografa i vip vendendo le relative foto alla carta stampata o agli stessi interessati che non abbiano interesse a farle circolare, e che per tali attività è stato indagato dalla magistratura e posto, seppur per un breve periodo, agli arresti.

Le microstorie sono fra loro collegate, in maniera non occasionale ma funzionale alla ricostruzione di un quadro unitario: il sogno di Ricky passa necessariamente per le ospitate ai programmi delle televisioni commerciali, ed il suo successo eventuale non può che dipendere dalla intermediazione di personaggi come Lele Mora; Lele Mora stesso è stato il primo importante datore di lavoro di Fabrizio Corona, che all'inizio della propria carriera lavorò come suo assistente, prima di mettersi in proprio con la sua attività di agente fotografico.

A propria volta, queste storie vengono ad intersecarsi, come anticipato, con la macrostoria italiana: i sogni dell'uomo comune, ingenuo, non troppo colto né particolarmente ricco - Ricky -  sono incarnati dai modelli forgiati da Lele Mora ed, in parte, da Fabrizio Corona, e dall'intero sistema delle televisioni commerciali, appartenenti alla galassia Mediaset e, attraverso essa, a Silvio Berlusconi: Silvio Berlusconi che costituisce il modello comportamentale esplicito di Lele Mora (il quale lo paragona a Mussolini, mostrando nel proprio telefonino la video suoneria di "Faccetta nera", accompagnata da video con simboli nazisti) e uno dei personaggi più ammirati da Fabrizio Corona (che loda l'attuale Presidente del Consiglio per aver "speculato" su alcune foto relativamente compromettenti della figlia Barbara, acquistate dalla sua società e poi ripubblicate su un giornale scandalistico appartenente alla famiglia Berlusconi).

L'ordito del documentario appare dunque evidente: in Italia esiste una sorta di "videocrazia", nella quale la televisione commerciale ha in un certo senso mutato il codice genetico degli italiani, proponendo modelli di sviluppo economico professionale basato unicamente sull'apparire e sull'esser-ci televisivo, in forza del quale, se non appari dentro il video, non sei nessuno: un pastiche che mette dunque insieme Andy Warhol, Martin Heidegger, passando per lo Welles di "Quarto Potere" e lo Scorsese di "Re per una notte".

Questo modello, nell'ottica dei documentaristi, trascende a livello politico: Berlusconi è sia il fautore di questa sistema, avendo egli sviluppato le televisioni commerciali negli anni '80, sia il principale beneficiario; in ovvi termini di profitto, ed in non secondari termini di edificazione di un "mito carismatico" che rende l'attuale Presidente del Consiglio un soggetto superiore ad ogni critica, al di là del bene e nel male, consolidandone il potere ed aumentandolo semmai giorno dopo giorno mediante un abile manipolazione del reale.

Quasi che Berlusconi fosse il proprietario della "caverna" platonica in cui gli italiani sono rinchiusi, vedendo trasmesso un particolare tipo di film che li tiene incatenati e non consente loro di intendere il vero senso della democrazia, della partecipazione politica, della crescita ed emancipazione intellettuale da un nuovo modello di Stato-totalitario, non troppo dissimile, poi, da modelli orwelliani, cui questo film sottende quando ci mostra le brutture delle periferie italiane in cui si "muovono" i personaggi popolari, le strade ortogonali, tracciate da geometri, i palazzi abusivi costruiti chissà come, contrapposte all'algida ricchezza delle ville di Mora, Berlusconi e altri, sfregio edilizio ad una natura che la loro presenza ci suggerirebbe ormai contaminata.

Durante la proiezione, mi sono posto un interrogativo: questo documentario mi mostra delle cose vere - come le imbarazzanti confessioni di Mora o Corona - ma accanto ad esse anche cose verosimili, che sono il frutto di induzioni, cernite, selezioni effettuate dai documentaristi, soprattutto nel passaggio e nel collegamento fra microstorie e macrostoria.

Il "vero" è ciò che è filmato; ma esistono anche la fotografia, il montaggio, le elissi narrative, tutto ciò che rende quest'opera intellettuale un prodotto, un racconto a tesi, tesi per l'appunto "verosimile", che non mi sembra del tutto condivisibile per alcune ragioni sulle quali intendo soffermarmi.

E' consolatorio credere, soprattutto fra gli acculturati di centro-sinistra, che il potere dell'attuale governo Berlusconi dipenda non solo dalla potenza mediatica del Presidente del Consiglio (scalfita, almeno presso i giovani, dall'esistenza di altri media, fra i quali internet, nei quali le informazioni circolano libere, anche se contraddittorie e non sempre autorevoli), ma soprattutto dal fatto che il Cavaliere costituisce un modello per chi lo vota e vorrebbe essere come lui ("temo il Berlusconi in me", diceva Gaber).

Il fatto che sia consolatorio non vuol dire sia corretto, di talché mi sembra che questo documentario "provi troppo".

Il berlusconismo si cementa con il linguaggio televisivo e la proposizione-imposizione di certi modelli, ma occorre chiedersi se questi modelli non siano semplicemente ri-conosciuti dalla popolazione come endemici rispetto alla propria tradizione culturale, e per questo fortemente familiari ed al fondo rassicuranti: son davvero diverse le veline dalle protagoniste di "Mamma Roma" di Pasolini? E' davvero diverso Ricky dal Nando Moriconi sapientemente figurato da Sordi? Io penso che, al dunque, non sia così.

I modelli berlusconiani sono poi davvero diversi da quelli di certa sinistra? Per riallacciarmi a quanto osservato, la presenza di un grosso membro della minoranza omosessuale come Luxuria all'Isola dei Famosi non conferma forse la tesi che anche una parte della sinistra, o della popolazione da sempre vicina alla sinistra, finisce per condividere lo stesso linguaggio della destra? E' poi diversa da quella di altre trasmissioni la volgarità d'un Luttazzi, o la ricerca di vallette bionde da parte di Santoro?

Se a far forte Berlusconi è poi l'epos - il messaggio - più che il regime proprietario delle televisioni, vi è poi da chiedersi perché un analogo collegamento politico non vi sia in altri paesi in cui il modello di televisione commerciale, comunque influente a livello politico a fronte di lobbies economiche di primo piano, non pare avere influenzato in maniera così massiva le sorti politiche dello Stato.

La "videocrazia" italiana mi sembra dunque - anche a seguire le tesi dell'autore - più l'effetto di una crisi culturale del nostro paese, piuttosto che la sua causa, ed un agile strumento attraverso il quale si cerca di spiegare e semplificare una realtà molto più complessa, da cogliere attraverso una rigorosa analisi storico documentaria che ci spieghi perché una parte non secondaria dell'Italia - anche colta, borghese, acuta - preferisca affidare le proprie sorti al Cavaliere piuttosto che ad altri politici di vaglia, sia a destra che a sinistra, e perché una parte non secondaria dell'Italia, di sinistra come di destra, non si riconosca affatto nel Paese volgare che il videomaker cerca di descrivere.

La scena di Ricky che si allena al mattino, all'alba, da solo, nel giardino di casa, tuta bianca su prato verde acceso, con la madre fiera sul poggiolo della casetta bifamiliare è, in ogni caso, struggente e compassionevole assieme.

Piango i tempi in cui un ragazzo così avrebbe preferito fare il paracadutista incursore piuttosto che l'incursore a "X Factor".

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