La notte è silenziosa

La malinconia è enorme

Un fuoco fatuo turba il tranquillo paesaggio

Che rompiscatole

È un vecchio fuoco fatuo

Aveva proprio bisogno di venire?

Riprendiamo la nostra fantasticheria, per favore.*

Capita di non aver voglia di nulla: sbiadiscono, tutto a un tratto, le differenze tra le cose. Al loro posto, un grigiore indistinto. Capita d’aver bisogno del silenzio. Frastuono e fastidio, quel che ieri pareva musica.

Capita anche di trovare, in Satie, l’unico suono consono al silenzio: i suoi guizzi, le sue lente notti, i suoi giochi da bambini.

Spazza via ogni cosa, quello stronzo di Satie. Ma con delicatezza. Tronca di netto ogni serietà, il suo tocco magico. La sua, una strana maniera di guardare al mondo e giocare con esso: una gaia e mesta presa per il culo.

Chissà cos’aveva in quella sua testa di giostra.

Di certo, non voleva impressionare gli altri con artifici. O forse sì, anzi decisamente sì. Ma non per mettersi in mostra. Sembra piuttosto che le sue composizioni, i suoi nonsense, fossero il sismografo dei suoi pensieri. Del suo tedio, del suo divertimento e, forse, dei suoi sogni. Eppure, annota in un quaderno, l’uomo è fatto per sognare come io sono fatto per avere una gamba di legno**.

Boh.

Forse è il caso di tacere.

Di lasciare che il silenzio si faccia musica.

In questo, le pagine di Erik Satie e le dita di Aldo Ciccolini riescono, credetemi, meglio di tutto il resto.

...

...

Tutto qua.

Meritava forse disamine migliori, l’opera di Satie?

Narrazioni della sua vita, aneddoti, definizioni calzanti?

Non direi.

Satie, prima d’essere un uomo, è, per sua stessa ammissione, un mammifero.

Un orso, un ghiro, un cervo.

Il suo bosco è la musica.

La sua corsa a perdifiato, una danza di dita.

Descriverlo, vuol dire farlo morire.

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