E’ un periodo durante il quale consumo senza ritegno alcuno i miei occhi. Pc al lavoro, sudore e cloro subito dopo il ritorno a casa, fumo di sigarette altrui la sera e pagine prima di andare a dormire. Se fossi la mia retina non mi farei trattare così: minaccerei il proprietario dicendogli “ehi, brutto stronzo, continua così e senza preavviso sciopero a tempo indeterminato”.

Appena finito di leggere la “Schiuma Dei Giorni” di Vian sento subito la necessità di alzare le chiappe in direzione della libreria di famiglia. Il figlio di un cane di cui vi voglio parlare oggi è così magro e sottile che in tutti questi anni non l’avevo mai scorto. Ed infatti, incastrato tra quei due pallosissimi mattoni super classici dal prepotente potere narcotizzante, pareva una trista fetta di formaggio in un chimico hamburger di Mc Donald‘s. La copertina superlusso e le prime due pagine mi sono piaciute a tal punto che senza preliminari siamo andati in camera. Gli ho detto: “scoperemo proprio stanotte e fanculo la sveglia di domani mattina“. E così è stato.

Il protagonista è un bastardo in tutti e due i sensi: figlio di una baldracca che mai ha conosciuto e persona dal talento innato per non far crescere l‘erba dopo il suo accomodante ed affabile passaggio.

La storia di Gene è oggettivamente insulsa nel senso che non c’è una trama, un finale a sorpresa, un obiettivo e tantomeno una morale. I fatti snocciolati da Caldwell sono sassi gettati da una scarpata che rotolano dappertutto. L’autore, all’esordio, descrive una vita animalesca fatta di violenze sessuali, razzismo, revolverate nello stomaco ed amore marcio come se stesse cercando di spiegare il funzionamento di un motore a scoppio ad un ragazzino al suo primo giorno in officina. Una freddezza, un distacco assoluto che colpisce lì; sì, proprio lì in mezzo con un fare secco e deciso che non lascia scampo.

In tale ottica di giudizio lo stile narrativo non è solo importante, ma assume i connotati della colonna portante. Il suo è un modo di scrivere diretto e asciutto alla Steinbeck, complessivamente lineare, sebbene a spezzare il ritmo ci siano brevi sfuriate deliranti introspettive. Rimangono impresse le descrizioni minuziose. Ed infatti ce le immaginiamo le invitanti cosce sode di quella giovane puttana, le sentiamo cigolare quelle tavole di legno. Ci stuzzica le narici il rovente profumo di malto e ci sembra di sentirlo addosso, perfino nel gelo di questo inverno siberiano, il caldo opprimente di una segheria. E’ talmente ben reso quel sudore appiccicaticcio, quella polverosa landa desolata, che mentre leggo sento persino il bisogno di scendere le scale per bere un sorso di acqua dal frigo.

Mentre chiudo il libro soddisfatto, stropicciando il cuscino e spegnendo la luce ormai a notte fonda, penso che uno scrittore medio dei nostri giorni solo sull’episodio finale avrebbe ricamato qualcosa come 150 melense ed insulse pagine banalizzando e rovinando il tutto.

E’ la prima opera di Caldwell che leggo e ne consegue che per me dovrebbe essere assai arduo, quasi utopistico, poter misurare il valore di questo “Il Bastardo“. Ma il fatto che ora senta l’impellente necessità di chiudere velocemente sta recensione per poter andare a cercare “La Via Del Tabacco”, mi pare sia un buon modo per consigliarvelo ed al contempo giustificare le mie cinque bastarde, sbeccate e luride stelle.

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