C’era musica nei campi di sterminio nazisti. Ma quasi nessuno lo sa.

Marcette, canti popolari, arie famose, danze, inni, persino musica jazz!

Ogni campo aveva il suo inno: In quello di Dachau risuonava la frase “Arbeit macht frei”, a Börgemoor, (il campo destinato agli oppositori politici più pericolosi) era il canto dei “soldati della palude” di Rudi Goguel, canto che raggiunse tanti lager, compreso Sachsenhausen ed il campo femminile di Ravensbrück.

Le piccole orchestrine di detenuti salutavano gli altri prigionieri mentre si avviavano al lavoro, li attendevano al loro ritorno. Accoglievano i nuovi arrivati, allietavano le festicciole dei loro aguzzini.

E accompagnavano quelli che andavano verso le camere a gas….

Nel campo di Sachsenhausen c’era uno straordinario gruppo vocale di otto voci: i Sing-Sing Boys. La loro principale abilità era di imitare gli strumenti con la voce.

A Natzwailer-Struthof una piccola orchestra si riuniva di sera a suonare nel totale silenzio, dal momento che tutti crollavano per la fatica ed i morsi della fame.

A Bełżec, si suonava nell’area tra le camere a gas e le fosse per la sepoltura, e la musica spesso accompagnava l’attività del Sonderkommando.

E poi c’era Terezín.

Ma Terezín era un’altra cosa: era una truffa!

Nato per ingannare la Croce Rossa e l’Europa intera circa le reali condizioni di vita presenti nei lager, questo campo di transito (verso Auschwitz), si popolò di numerosi prigionieri intellettuali e musicisti di ogni genere. A Terezín si rappresentavano opere teatrali, anche per bambini (gli stessi attori erano i bambini prigionieri), cabaret, concerti jazz, concerti di musica da camera, récital di pianoforte solo.

Ai nazisti piaceva.

La musica serviva come fattore di controllo, valvola di sfogo, attività sociale nel campo.

Josef Mengele andava matto per il pezzo di Schumann “Die Träumerei” che, i prigionieri, suonavano per lui. Anche Himmler si divertiva ad ascoltare quelle orchestrine.

E, poi, il führer – tutti lo sapevano – amava la musica (quella giusta, sia chiaro!). La chiamava “la regina delle Arti”, si sentiva felice a Villa Wahnfried - lì dove Wagner aveva trovato la “pace” – e dove lui andava a discettare di “musica pura”, mentre Winifred (la giovane moglie del primogenito del grande compositore, prigioniera di un matrimonio-farsa) gli sedeva sulle gambe chiamandolo “zio Wolf”.

Lo sapeva bene Goebbels, che coniò il termine “Musica Degenerata” (ed organizzò una famosa mostra contro la stessa) per condannare, prima di tutto, il Jazz; poi le altre musiche “impure”. E, visto che funzionava, lo trasformò, poi, in “Arte Degenerata” e lo usò con l’efficacia che – purtroppo – conosciamo.

Ora, la piccola Esther, quando appena diciottenne, finisce nell’inferno di Auschwitz-Birkenau, tutte queste cose non le sa.

Sa solo che è troppo gracile per poter sopravvivere al lavoro massacrante del lager.

Così, quando Zofia Tschaikowska, una deportata polacca, mediocre violinista, a cui i nazisti avevano ordinato di mettere su una piccola orchestra, le mise in mano una fisarmonica lei capì che era l’unico modo per salvarsi.

Esther non aveva mai suonato la fisarmonica, ma suo padre - primo cantore della comunità ebraica di Saarbrücken – le aveva fatto prendere lezioni di piano.

Le ordinarono di suonare “Du Hast Glück Bei Den Frau’n Bel Ami” una canzoncina in voga in quei tempi. Ed Esther ci riuscì senza neanche sapere come.

Così la Musica le salvò la vita.

A dirigere l’orchestra fu messa, poi, fino alla sua morte - avvenuta, sembra, per avvelenamento - Alma Rosè, nipote di Gustav Mahler e grande violinista.

Non fu facile: si doveva comporre su fogli di carta igienica incollata (un repertorio a memoria prolungava la vita dei prigionieri). Spesso si suonava in condizioni deliranti, al freddo, sotto la pioggia, all’alba o di notte mentre il comandante del campo obbligava ad intonare canti militari, urlando e picchiando.

Non fu facile: le condizioni di vita erano sempre quelle del campo, anche se le musiciste non erano sottoposte a turni massacranti di lavoro. Esther si ammalò anche di tifo.

Non fu facile suonare per chi andava ai forni.

Non fu facile.

Ma Esther si salvò.

Andò in Israele. Credeva fosse la sua casa. E cercò di restituire qualcosa alla Musica: insegnò, suonò, compose.

Poi si sposò ed ebbe dei figli.

Ma Israele non era la sua casa.

Non era stato facile adattarsi: sui sopravvissuti pesava un tacito pregiudizio, quasi una condanna. Come avevano potuto permetterlo? Non era facile fare i conti con una simile Storia, con un tale macigno!

Ma Esther si era inserita. Lavorava e tirava su la sua famiglia. Il problema furono le scelte politiche dello Stato Israeliano.

Ora, una come Esther, l’intolleranza – che è madre puttana del fascismo - la riconosce subito quando la vede e, una come lei, non la fai stare zitta.

E’ il 1960 e la nostra Esther prende suo marito ed i suoi figli e lascia Israele. Se ne torna in Germania. Qui riprende a suonare, ad insegnare e a raccontare la sua storia. Ed a tenere dritte le antenne ed allenato il naso per sentire, per tempo, la puzza di fascismo quando arriva. Fonda, con altri come lei, l'Auschwitz Komitee Deutschland. E mette su un gruppo musicale con i suoi figli, i “Coincidence”. Fanno musiche tradizionali yiddish e canti della Resistenza, canzoni di protesta e musiche di popoli calpestati. Vanno molto in giro, si fanno ascoltare.

Ma non basta.

Esther ha le antenne drizzate e vede che, l’intolleranza (la madre puttana di tutti i fascismi), in Germania ha ripreso a serpeggiare. Vede che la Bestia – che lei conosce bene – sta cercando di rialzare la testa in tutta Europa.

Lei ne conosce bene il fetore.

Esther sa che bisogna parlare (una come lei non la fai star zitta), che si deve fare barriera, che non ci si deve voltare da un’altra parte quando si alzano muri e sorgono barriere.

Ha più di novant’anni ma non ha perso la voglia di combattere.

Ma, soprattutto sa che si deve parlare, per prima cosa, ai giovani. Che L’antifascismo, la memoria della Shoa, la denuncia delle intolleranze rischiano di diventare solo dei santini per vecchi (e noiosi) nostalgici.

Così Esther decide di mettersi a fare Rap!

E qui bisogna raccontare un’altra storia: ci sono un tedesco, un turco ed un italiano.

Mettono su un gruppo rap. All’inizio sono in cinque, poi restano in tre. Vogliono parlare di Germania multietnica e multilinguistica, una Germania che non sa e non vuole sapere di essere così. Il successo non arriva ma loro non demordono.

Poi incontrano Esther.

Faranno due dischi, “Per la vita” e “La vita continua”, raccolti – poi – in un cofanetto “Ama la vita” contenente i due dischi più alcuni brani dal vivo. Soprattutto fanno un sacco di concerti in giro per l’Europa. Poi l’italiano lascia il gruppo per andare a fare il cuoco ed al suo posto arriva il figlio di Esther.

Che musica fanno? Come suonano questi dischi?

Ti interessa davvero?

Mai come in questo caso il “cosa” conta molto più del “come”. Comunque è rap, non del più originale, forse. Ma ti pare che mi metto a parlare di “flow”, di “groove” o di “style” per questa roba?

Esther ha 96 anni, canta, balla, “rappa” e non sta zitta. E’ intensa Esther: le sue rughe sono caverne, strade che vanno lontano, ed i suoi occhi sono fiammelle. Sì, è bella Esther a suo modo: è bella come un’idea.

Sono venuti pure in Italia, lei ed i Microphone Mafia. Esther ha voluto dire la sua contro la vergogna dei porti chiusi (te l’ho detto che, a lei, non la fai stare zitta). Hanno anche scritto un libro su di lei: “La ragazza con la fisarmonica” (a cura di Antonella Romeo).

Così Esther continua a raccontare la sua storia.

Una storia che pochi sanno.

Che c’era musica nei campi di sterminio nazisti.

Todah achot Esther.

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