Mia madre mi ha lasciato una discreta collezione di vinili. Soprattutto 45 giri che prima della fine degli anni ‘60 era il formato più diffuso. Ed il livello qualitativo di questa raccolta è piuttosto alto. Si va da Caterina Caselli al primo Celentano, da Modugno a Morricone, da Mina a Rocky Roberts da Elvis Presley a Paul Anka, da Neil Sedaka agli Everly Brothers. Tra i pochi 33 giri ce n’è uno che mi ha affascinato sin da bambino. Indovinate quale.
Mi affascinavano i suoni che uscivano da quel cerchio nero ma anche la copertina con quel marrone cioccolato predominante. Tell Mama è uno di quei dischi magici e stregati che dopo averli ascoltati per la prima volta sai di non poterne più fare a meno.
Jamesetta Hawkins – ribattezzata Etta James da Johnny Otis - ha attraversato vicissitudini, dolori e difficoltà enormi. Una vita dal lato sbagliato della strada che comincia con la nascita da madre afroamericana appena quattordicenne e padre italiano venticinquenne che non l'ha mai riconosciuta. Pelle piuttosto chiara, quindi, in contrasto con i lineamenti africani, particolare che ha contribuito a crearle problemi e che lei ha estremizzato sfoggiando una acconciatura biondo platino.
Cantante prodigiosa, Etta - scoperta giovanissima da Johnny Otis e scritturata dalla Chess Records - è la quintessenza della cantante Soul, dotata di una vocalità grezza, dinamica, potente ma anche suadente, forse meno profonda di Aretha Franklin, ma soprattutto, dotata di passione ineguagliabile.
Tell Mama è un disco epocale, il punto culminante della discografia dell'artista, in cui R&B, Soul e Blues si avvicendano e si fondono in un visione di limpida bellezza che combina la voce potente e grintosa di Etta finalmente con il materiale giusto e con musicisti eccellenti come il sassofonista Floyd Newman, il tastierista Spooner Oldham e il pianista Marvell Thomas. Ma nell’estate del 1967, dopo aver trascorso gli ultimi tempi a disintossicarsi all'USC County Hospital ed al Sybil Brand, la prigione femminile di Los Angeles, per reati di droga, nessuno, nemmeno Etta stessa, avrebbe potuto prevedere di essere sul punto di registrare uno dei migliori album Soul di sempre.
Ogni canzone è un classico. La title track apre il disco con un basso martellante e fiati incisivi che insieme al canto feroce di Etta creano una gemma soul pari alla "Respect" della rivale Aretha. Scivolando in uno stato d'animo più oscuro, Etta canta "I'd Rather Go Blind", ballata dolorosa ed una delle grandi canzoni soul della sua epoca. La voce meditabonda della James, che si libra sopra l'affascinante tappeto di chitarra ritmica, organo e batteria, fa emergere il dolore viscerale dei testi. Si narra che quando Leonard Chess ascoltò la canzone per la prima volta, lasciò la stanza in lacrime. Seguono la rockeggiante "Watch Dog" di Don Covay e l'incredibile "The Love of My Man", la cover sfrigolante di "Security" di Otis Redding e "Steal Away", country blues di Jimmy Hughes, fino ad arrivare all'ironica e veloce "My Mother-in-Law", alla straziante "It Hurts Me So Much" ed al conclusivo funky-soul di "Just a Little Bit" (famosa anche nella versione garage-beat dei Them).
Negli anni a seguire Etta proseguirà su una strada tortuosa e discontinua, schiava dell'eroina e di farmaci antidolorifici. Tuttavia, alla fine degli anni ottanta la sua produzione subirà una rinascita. Ma, come canta Paolo Conte, il destino è cinico e baro, per cui alle vicissitudini di tossicodipendenza si aggiunsero gravissimi problemi di salute e per ultimo la leucemia, che nel 2012 si è portata via questa donna, così fragile ma anche tenace e ribelle. Etta è fatta della stessa sostanza di Ray Charles, B.B. King, Aretha Franklin, con una umanità accresciuta dalle dure prove e dalle sofferenze a cui la vita l’ha sottoposta.
Disse Keith Richards: “Etta James ha una voce che viene dal Paradiso e dall'Inferno. Ascolta la sorella e sarai accarezzato e devastato allo stesso tempo”.
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