Los Angeles

Città che ti scansa o ti calpesta

nella “sua eterna polvere” vischio di mito e distopia, urbanesimo e natura, immaginazione e realtà…

James Ellroy raggiunse dopo anni di perdizione, di anfetamine e tamponi di Benzedrex quella conclamata popolarità, quella chimera in grado di concederti in prestito un sorriso eterno come una pagina sfogliata di Cosmopolitan. Ed infine assuefatto da quella noia e dopo aver girato il mondo, ritornò gaudente in quella natia maledizione losangelina, dopo tanti anni riscoprendo quella bellezza mozzafiato che prende vita sempre alla vista di quella sempiterna baia, di quella morbosità fetale.

Somebody said to me
You know that I could be in love with almost everyone
I think that people are
The greatest fun
And I will be alone again tonight my dear

Quella stupenda inseneatura, curva dionisiaca di femmina ed infinita bellezza, ha “urlato” per secoli nelle menti di anime perse vaganti a mezzanotte per depositi ferroviari, ha bagnato con il suo effluvio vitreo ogni contatto con la carne, emettendo bagliori celebranti e dissacranti, quella diabolica e conturbante contraddizione di sogno ed utopia che scompaginò lo stesso Brecht.

Quella maledizione che va a nozze con la musica, quell’adorazione per le opere abbandonate e disperse nel tempo, la tempesta creativa, quell’atto intimista e solitario.

Theios aner.

Frammento sottile di hybris, sfuggito alle punizioni divine ed agli illuministi che hanno visto solo nella ragione la perfezione umana, sottovalutando l’ immaginifico, oltre la materia esistenziale.

Strana ed improbabile liaison questa tra Hamilton Wesley Watt Jr e William J Lincoln, risorti da una febbrile illuminazione nata appunto a Los Angeles nel ‘65.

Risulta possibile conciliare un album con un lato B di arpeggi così soffici, come quello di “A Gift From “ con una narrazione di testi così struggenti, di macabri racconti di suicidi, di assunzione di droghe, di fughe clandestine dalla realtà...forse basterebbe essere nati a Los Angeles per averne una diversa percezione.

Se l’ascolto non aiuta a farsi una idea precisa della band e del suo ruolo storico, per quelle asimmetrie, tra bluegrass e psichedelia, tra i brani e nei brani stessi, la storia stessa degli artisti ci lascia su quelle altezze senza linea vita, con tutte quelle domande senza risposta – da dove arrivano questi carillon del dolore, chi sono e poi...dove sono andati veramente dopo l’uscita dell’album?

Due cantautori in (erba), all’alba della Summer of Love, incantati dal Bianco Album e trillati da quegli ascensori al 13esimo piano, eterei in quella barocca Slab City, quel progetto trafugato ai Love ed ai Bee Gees ( si si i fratelli Gibb quelli con i pantaloni a zampa bordeaux) di immaginare ( hybris! ) una global opera Rock, un po' folk, un po' country e psichedelicamente sinfonica. Possiamo solo immaginarli perché se poco si sa dei loro esordi, poco e niente ci e’ dato sapere dei loro trascorsi una volta uscito l’album, in anni in cui a qualcuno era ancora concesso il lusso di sentirsi invisibile.

Hamilton e’ una testa bruna e sottile con una vaga somiglianza con Marc Bolan mentre Lincoln, come nella copertina dell’album è il sosia perfetto di John Voight , con tanto di look south western come nel Midnight Cowboy di Schlesinger.

Forse anche loro alla ricerca di quel chimerico sogno di Joe Buck & Sozzo, quell’altra strana coppia alla deriva in quel Torpedone diretto in Texas, quella scintilla di emozione nel deserto che diventava autentica virtù quando si elevava in pura e solidale fratellanza.

Aleggia una leggera distonia in “ A Gift From “, primo ed ultimo tracciato di quella rotta stellare, concentrico viaggio con vista sulle costellazioni di Cassiopea, rilasciato dopo 5 anni di intenso vagare nel novembre del 1968 senza alcuna promozione, sotto la buona stella della Capitol Records, che prese una sonora sbandata e pare lasciò carta bianca per la definizione dell’album, registrato tra Hollywood , Nashville ed il paese psichedelico dei The Notorious Byrd Brothers .

L’album pare che all’epoca sia stato un flop colossale e del duo dopo l’album si persero le tracce, per commercializzare quell’amplesso di genio & follia la Capitol investì molto a livello economico, ma il genio e la follia, si sa sono polvere di stelle…

Nulla di nuovo quindi sotto quel cocente sole californiano ma l’essenza stessa multiforme e luciferina dello psich-rock che permea tutto l’album ed in “ Suicide on the Hillside “ trasuda come unico ed esplosivo episodio delle Their Majesties Satanic in terra straniera, con quelle sciabolate fuzz e quella intermodulazione di batteria basso chitarra e voce posseduta da un amabile supplizio, quella sferza vibrante che non si nega a nessuno che sta esagerando con la Ragione.

Ma la grande sorpresa e’ in quella seconda traccia, “ The Stone River Hill Song “ , persa ogni speranza di redenzione, con il trench coat inzuppato di tabacco, con l’ultimo treno della notte ritrovare quella magica spedizione di Dillard & Clark, quella troupe lussureggiante e bluegrass che strappa ed innalza l’asticella dei ricordi.

Con il respiro che si fa ansimante e gli occhi che tornano lucidi come la prima volta che eri stato investito dalla follia Chateaubriand di quel banjo assassino a 5 corde pizzicato da quell’impenitente autoharp, capace di dissolvere in un ridente caos tra le geometrie di quei campi tutta quella foschia byrdiana, quell’amabile progressive bluegrass che rimanda a quell’anima geniale e solitaria di Bill Monroe.

Contemporaneamente “ Did you Get the Letter “ e’ tremolio di crateri, è transizione nella transizione, in parole povere…sublimazione.

Il movimento è concentrico, il suono è tutto un flusso ed un riflusso, la destinazione sembrerebbe proprio la Città degli Angeli, quella sintesi di Paradiso ed Apocalisse, ma il vero trionfo è nel movimento, nel viaggio...

Probabilmente il succo sarebbe tutto lì, nella cifratura di quel messaggio alieno ed ipnotico, sfumato in quel mash up psichedelico in territorio White Album ; ouverture di mandolino a doppio piano seguito da un delicato arpeggio di banjo, in plen air su schermi visioni di catarsi, invasione di effetti, spari, effluvi sonori, mentre una sirena anticipa, divisiva, il ritorno del soffice arpeggio originario, con il fuzz pedal ancora fumante.

50anni dopo, quelle sirene riecheggiano ancora nella mente, ma non siamo ancora in corsia ma sotto la malavitosa protezione di Danny Lee Blackwell, in quel brano “Cream Johnny" di quel discone di R&B Outlaw, ricorsi storici della psichedelia ed anche qui di quella adorabile sbandatezza losangelina…

L’altra metà di quel messaggio potrebbe trovarsi nella pastorale dolcezza di Lady Bedford, dopo le esplosioni di chitarra della prima parte dell’album tocca ora alle pause del clavicembalo dettare il ritmo ad una voce sognante, dopo aver attraversato un paesaggio musicale arduo il suono mitiga nella splendida ed interamente orchestrale ballata di Hollywille Train , che rimanda ai primi Walkabouts

Scavando nei solchi e nei fondali che lascia l’ascolto di questo album dopo una serie di ascolti, nella terra mossa dalle acque brunastre si scorge quello stato , di passaggio, quella transizione e quel fluire al quale il sound della band ti rimanda , con atmosfere folk rock e Bluegrass che si tingono all’improvviso di psichedelico . Probabilmente a quei cambiamenti perentori, anche esistenziali a cui faceva riferimento proprio in quel periodo Sir Arthur Lee .

Soave ma fatale, quel macabro sogno infestato dalle chitarre fuzz di "World “ chiude l’album con quel biglietto d’addio al mondo - “Spero che un giorno ci rincontreremo” – sempre a Los Angeles.

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