Devono proprio essere stati, per dirla con Mario Capanna, "formidabili quegli anni". E non credo proprio ci sia bisogno di stare a specificare a quali anni si riferisse, il perché e il percome.

Un fatto certo è che anche la musica giovane (eh già, il rock, guardando alla sua carta d'identità ufficiale, a quel tempo manco era diventato maggiorenne) contribuì non poco a renderli formidabili per davvero, se per esempio gente come i texani d'origine, ma californiani d'ovvia elezione, Hamilton Wesley Watt jr. e William D. Lincoln, riunitisi insieme ad altri estemporanei sodali sotto la per nulla esclusiva sigla - occhio perciò, se interessati a dar corso alle ricerche... - Euphoria, nell'annus mirabilis 1969 poteva uscirsene con un capolavoro assoluto - ebbene sì, sarei pronto a dichiararlo con fierezza di fronte a qualsiasi Inquisizione incaricata di processare Rock&Affini - come "A Gift from Euphoria" e poi immediatamente sparire nel nulla, sorte capitata né più né meno a quel misconosciuto "unicum". Del quale, se di un improbabile primato si poté invece parlare, questo riguarda certamente le folli spese che ai signori della Capitol (mica Pizza&Fichi) costò produrre questo "regalo" assemblato tra Hollywood, Nashville e Londra (!) da degli illustri semisconosciuti - prima, giusto un paio di garagismi simil-Elevators a riempire i due lati di un ramingo 45 gg. Per di più, proprio per non farsi mancare nulla, con l'ausilio in alcuni brani di intere orchestre sinfoniche. Manco fossero i Beatles. O i Beach Boys. Se poi si vendette poco meno di nulla, ecco che appunto, si accomodino pure, grazie, basta così. Ribadisco: tra i più esecrandi delitti di lesa memoria.

Hollywood, Nashville, Londra... Lo ascolti, "A Gift from Euphoria", e senti risuonare la parolina magica che si usa al solito in questi casi: derivativo. E allora sì, rilanciamo: clamorosamente derivativo. Perchè come spesso accade a chi magari non ha avuto il dono dell'intuizione prima, qui i due compari sembrano..., quaggiù invece ti ricordano...., là invece ovvio che rimandino a.....e infine in quei brani sono uguali a.... Salvo poi, terminato l'ascolto, dover ammettere a te stesso che questo è per l'appunto il più bel riassunto possibile in soli quindici brani e quarantaquattro scarsi minuti di: magnificente grandeur tra musical e pop, ma pure jangle-rock inacidato ad otto miglia in alto, ma pure bluegrass trapunto da apoteosi di banjo e pedal-steel, ma pure delicati acquerelli folk che a un tratto divengono ineffabili madrigali, ma pure brume rock con vista (visione?) sulla Baia o viceversa, attraversando l'oceano, sulla più gaia Abbey Road o tra i vapori malevoli dell'Ufo Club, ma pure grintosi chitarrismi moderatamente distorti alternati a oniriche sospensioni orchestrali. Ossia, Tin Pan Alley, Byrds, Buffalo Springfield, Beatles, Tomorrow, Moby Grape, Love, International Submarine Band, Dillard & Clark e pure un'ipotesi della Cosmic American Music che ispezionerà di lì a poco Gram Parsons. Soltanto che fino ad allora nessuno (nes-su-no) aveva mai provato a mettere tutto quanto assieme. Men che mai dopo.

E perciò la mente vola (via le metafore, per favore) a quanto ti sarebbe piaciuto sentire "Stone River Hill song" o la strumentale breve sosta a Nashville di "Something for the Milkman" nella fantastica spedizione di Dillard &Clark, così come quanto avrebbe ancor più impreziosito "The Notorious Byrd Brothers" sia il lisergico incedere elettrico di "Did you get the letter" che lo slargo psych-out di "Suicide on the Hillside Sunday morning after tea", non meno di quanto avrebbe fatto per l'esordio dei Moby Grape "Through a window". Così come "Sunshine Woman" ci sarebbe stata a meraviglia sul primo Buffalo Springfield e "Young Miss Pflugg" su "Again", tanto quanto "I'll be home at you" Gram Parsons avrebbe avuto piacere di scriverla per i suoi Flying Burrito Brothers oppure di sbatterla in faccia al despota McGuinn per incastonarla nel bel mezzo di "Sweetheart of the Rodeo". Se poi, per qualche strano disegno del fato, l'incanto orchestrale di "Hollyville Train", "Docker's son" e i quarantacinque secondi di "Too young to know" oltre ai poco meno di duecento di "World", ballata falsamente trepida (sentirsi la coda acidognola di wah-wah e fuuzzzz), si fossero trovate in sequenza a chiudere "Forever Changes", non staremmo certo a discutere inutilmente su quale sia stato il più bel disco griffato Love dal genio di Arthur Lee, e non solo tra quelli.

Chiamiamola allora psichedelia, perchè mai come in questo caso ci casca bene e risolve l'imbarazzo, e morta lì. Chiamamolo allora capolavoro, e rimorta lì. Formidabile. Anche per quegli anni. Adesso portatemi pure davanti a tutti i Torquemada che volete.

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