Ben Watt avrebbe creduto ben poco, 20 anni fa, al veggente che gli predicesse un discreto successo commerciale legato a una produzione dance di levatura (ma non certo indispensabile). Come, d'altronde, avrebbe potuto? Reduce da una prova solista che vantava tra i suoi ospiti nient'altro che il maestro della scuola di Canterbury Robert Wyatt (l'interessante "North Marine Drive", 1983), forte di una sensibilità musicale raffinata e poco incline al compromesso, nel 1985 il compositore inglese aveva già traghettato i suoi Everything But The Girl verso un traguardo non da buttare: imporre le prime due fatiche della formazione, "Eden" (1984) e "Love Not Money" (1985), come dischi rivelazione della stagione "new cool". La formula vincente si mostrava in tutta la sua semplicità: lasciar scivolare la calda e languida voce - una delle più apprezzate del decennio - di Tracey Thorn su tappeti sonori presi in prestito dal soul e da certo jazz. Quanta della produzione pop a venire non sarebbe stata altro se non baci rubati da "Each And Everyone" o " When All's Well"? Fatto sta: la notorietà il duo la deve ancora, e paradossalmente, al successone del remix di "Missing" - in origine splendida ballad acustica, tratta da un parimenti incantevole album (quel vero e proprio omaggio all'arte di Simon and Garfunkel che è "Amplified Heart", 1994) - e al parto successivo a questa new wave del duo (l'altalenante "Walking Wounded", 1996, l'imbarazzante "Temperamental", 1999).

La virata 'dance' trova fondamento e, per così dire, "giustificazione" se letta come conseguenza dei gravi problemi di salute che avevano colpito Ben all'inizio dei '90: consapevole dell'entità del rischio corso, il musicista era volutamente approdato ad una filosofia del "get loose". Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che solo qualche anno prima, alla fine dell'89, il duo aveva invece sbarrato le porte alla proposta del produttore Tommy Lipuma di incidere un disco "all american". Chiusi in quello strano purismo musicale tutto 'english' - lo stesso che vuole la contaminazione musicale ma sa che il passo è breve dal citare all'emulare - i due avrebbero impiegato un po' di tempo a comprendere la genialità dell'intuizione di Lipuma: quella di prestare l'agile scrittura melodica di Ben e le preziose corde vocali di Tracey a un progetto di iper-produzione degno degli Steely Dan. E infatti - sciolta la riserva - l'intuizione darà vita a "The Language Of Life" (1990), straordinario compendio di pop songs fondenti e raffinate, dall'impeccabilità formale e dalla complessità compositiva quasi disarmanti se poste a confronto con il panorama musicale a loro coevo. Mai gli EBTG avevano osato tanto, mai più toccate queste vette. Basti dire che la commovente tromba di Stan Getz nella conclusiva "The Road" è solo un assaggio in un banchetto che vede portate ben più succulente: dall'esordio di "Driving"- una delle migliori pop songs del decennio (anch'essa vittima di un brutale remix) - al ritmo in crescendo di "Letting Love Go", dalla delicata ballata di "Meet Me In The Morning" al piano bluesy (Greg Phillinganes…) della title-track, il disco è un continuo incrociarsi di citazioni dal meglio della musica colta americana "all time". L'opinabile contenuto lirico di "Me And Bobby D. " (sarcastica critica a Dylan e alla filosofia della beat generation) o ancora della "bacchettona" title-track passano decisamente in secondo piano di fronte alla pregevole fattura del suono e dell'interpretazione dei brani, in cui la voce di Tracey sembra sciogliersi, strumento inimitabile di un'orchestra superba.

"Take Me" di Womack and Womack, "Imagining America", il gioco di tastiere di "Get Back Together" e i fiati esilaranti di "My Baby Don't Love Me" chiudono il cerchio di un disco stra-arrangiato, pulito, assolutamente coinvolgente e unico, ennesima felice dimostrazione che a volte le scelte migliori vengono agli artisti da vie inaspettate. Classe.

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