Dopo l'eccellente, chilometrico (nel titolo) ed essenziale nella produzione, "Those Who Tell The Truth Shall Die / Those Who Tell The Truth Shall Live Forever", la band di Austin (Texas), balza agli onori di pubblico e critica con questo "The Earth is Not a Cold Dead Place".

Siamo nell'universo post-rock, a partire dagli anni 2000, canonizzato dai primi lavori dei Mogwai. Un genere che nasce come un "non genere". In quel calderone che furono gli anni '90, l'etichetta/brodo post-rock venne coniato per raggruppare gruppi, artisti e scene musicali, che di fatto non avevano quasi nulla in comune tra loro. "Pochi" gruppi, tutti diversi, che avevano una sola tendenza in comune: la costante ricerca (partendo da retaggi musicali che spaziavano dall'elettronica, all'Hardcore) alla destrutturazione della forma canzone. Oggi il post-rock, suo malgrado, è diventato un genere vero è proprio. Una miriade di gruppi, "finalmente", tutti uguali. Per intenderci, se negli anni '90 si faceva fatica ad unire le due coste dell'Atlantico e gruppi come Bark Psychosis e Slint; oggi il ponte sull'Oceano è presto costruito, dalla Scozia dei Mogwai, si arriva rapidamente al soleggiato Texas degli Explosions in the Sky.

Fortunatamente per il quartetto texano, nel 2003, il mercato non era ancora saturo di queste produzioni, e la regola "intro soffuso-intermezzo noise-silenzio-crescendo-finale noise" non aveva una diffusione tale da mettere in pericolo questo bel disco. Il rischio quindi è proprio questo: lavori, ispirati, che si confondono in un calderone di mediocrità, con proposte musicali che suonano ripetitive come un loop. "First Breath After Coma" mette in chiaro il progetto della band; il territorio da battere è quello del rock e dei possibili utilizzi della sua strumentazione canonica, Chitarra - Basso - Batteria. Il delay diventa un espediente per rendere ancora più etereo il suono. L'esplosione della prima traccia confluisce in "The Only Moment We Were Alone", con l'iniziale  fraseggio a rendere il pezzo un classico da concerto. Con "Six Days at the Bottom of the Ocean" la band ci porta davvero in fondo all'oceano, un pezzo acquatico. L'ascoltatore viene lasciato alla deriva in un mare in calma piatta, sconquassato, sul finale, dalla solita tempesta. Il silenzio torna con "Memorial", così come il "diagramma" con i suoi picchi e i suoi bassi, nello schema "esplosione - silenzio - esplosione - silenzio". "You Hand in Mine" è la degna conclusione di un discreto album che termina nel silenzio totale.

Il post-rock, quello ispirato, per certi versi innovatore, termina qui, il resto è davvero noia!

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