Eravamo una manciata di sedicenni coi capelli lunghi, le barbe incerte e le magliette nere. Ci piaceva la stessa musica e questa, forse, era la cosa migliore che ci sarebbe potuta capitare. 
In testa, a ronzarci fra le orecchie, avevamo gli Slayer e la triade, i Forbidden e i Dark Angel, e cento altri gruppi che gli altri non avevano mai sentito. Rinunciavamo a tutto o quasi per i dischi: "Endless Pain" valeva un vaffanculo dalla tipa, esasperata per l'ennesimo sabato sera passato in qualche pub pulcioso con la birra a buon mercato, "Persecution Mania" qualche settimana di sigarette a scrocco. Perché non c'era internet, non c'era il mulo e non c'era E-Bay. C'erano quei lavoracci tristi e noiosi che da sempre toccano a chi ha le pezze al culo, c'erano i giradischi vecchi che suonavano meglio di quelli moderni e c'era tutto un giro strano di album copiati su cassette riciclate e logore peggio di un paio di mutande dopo due settimane di campeggio.

Di quel periodo mi rimane tutto sommato poco: qualche maglietta meno lisa delle altre da rieXumare in occasione dei sempre più rari concerti metal che mi concedo, un cassetto pieno di foto, matrici di biglietti, qualche ritaglio di giornale. Solo la musica è rimasta davvero: è ancora lì da qualche parte, peggio di una zanzara che non la vuole smettere di darmi il tormento, e anche se ormai quei dischi li ascolto sempre più raramente, ce ne sono alcuni che ancora amo tirare fuori dal granaio e che, più di ogni altra cosa, mi aiutano a ricordare quel periodo.

Pubblicato nel leggendario 1986, "Possessed By Fire" è il disco d'esordio degli Exumer, precocissimo quartetto di Francoforte sul Meno, formatosi solo un anno prima per volontà del minuto frontman Mem Von Stein (basso e voce): un disco certamente acerbo, imperfetto, che ben difficilmente potrebbe fregiarsi del titolo di "capolavoro", ma che col tempo ha saputo confermarsi come una delle testimonianze sonore più convincenti dell'epoca, nonché uno dei migliori debutti discografici dell'intera scena thrash metal teutonica. Fondato su un riffing certamente aggressivo e veloce, ma che non raggiunge mai vette estreme di ferocia sonora, costruito su una tecnica certo non eccelsa, ma comunque in grado di "dare ordine" e razionalità alle composizioni quel tanto che basta per non farle risultare caotiche, "Possessed By Fire" si rivela, fin dal primissimo ascolto, un album che fa dell'immediatezza delle composizioni il proprio punto di forza. Basti per tutte la splendida title track, eccellente esemplare di thrash metal ottantiano a presa rapida, in cui a colpire l'ascoltatore è soprattutto la prova dello scatenato Mem: una delle voci più grezze e ruvide dell'epoca, chiaramente intenzionato a proseguire sul sentiero dello sguaitismo canoro tracciato dal compianto maestro Baloff. Un cantato "rotto", e assolutamente atecnico, talmente esasperato da non poter essere trattenuto nei vincoli metrici delle liriche, che, se magari potrà far storcere il naso ai padiglioni più raffinati, di certo sollazzerà le incudini degli aficionados delle sonorità più ruvide.

Un buon disco, insomma, in tutto e per tutto figlio dei tempi e dei luoghi che lo hanno visto venire alla luce, ma che trova il proprio punto debole in una diffusa carenza di originalità o, per meglio dire, in una sorta di "eccesso di derivatività" della proposta musicale (del resto rinvenibile anche nell'artwork, chiaramente debitore - nonostante la band lo abbia sempre negato - alla figura dello sfortunato Jason Voorhes). Dal punto di vista compositivo, infatti, il disco regala ben poche sorprese: se, da un lato, il lavoro delle due asce Siedler e Mensch può facilmente essere ricondotto a quanto indicato dai grandi nomi della scena d'oltreoceano (primi Exodus su tutti), è soprattutto il riecheggiare dei tritoni e di certe sonorità slayeriane del primo periodo a conferire ai brani una diffusa sensazione di "già sentito", sia che si tratti dello stacco melodico delle pur ottime "Sorrows Of Judgement" e "Destruction Solution" (il cui attacco "omaggia", neppure troppo velatamente, quello di "Fight Till Death"), del ritornello di "Fallen Saint" (paro paro all'attacco di "Black Magic") o di certe sfumature sulfuree di alcune ritmiche a là "Hell Awaits".

Volendo chiudere bonariamente un occhio su tali "citazioni", e a parziale difesa di Von Stein e soci, occorre comunque riconoscere alle composizioni del quartetto una certa varietà: accanto a brani più diretti, che fanno della velocità il loro punto di forza (la già citata title track, "Destructive Solution", l'ottima "Xiron Darkstar"), se ne collocano, infatti, altri adagiati su tempi medi ("Reign Of Sadness") e medio-lenti ("Mortal In Black"), che, sebbene non possano annoverarsi tra gli highlights dell'album, di certo non sfigurano. L'album nel suo complesso, inoltre, grazie soprattutto al buon lavoro di Syke Bornetto dietro le pelli, gode di una certa cura in fase di arrangiamento, e può contare su alcuni "siparietti" (ironico)melodici ("Sorrows Of The Judgement") e addirittura acustici ("Destructive Solution"), che, almeno parzialmente, allontanano il sound della band dagli stilemi più intransigenti del genere.

Nulla di veramente originale, quindi, nulla che possa davvero far gridare al miracolo, eppure...

Eppure è come se, fra questi solchi neri di vinile, fosse rimasto impresso qualcosa di più del casino che un basso, un paio di chitarre e una batteria sanno produrre. Qualcosa che, ancora oggi, quando ascolto questo disco, mi da quel retrogusto torbato che solo i bei ricordi hanno: è quell'entusiasmo ingenuo e sincero di chi entra in uno studio di registrazione con ancora addosso un po' dell'umidità della cantina in cui ha provato per mesi, quel formicolio che ti prende le dita quando pensi che ogni nota che suonerai finirà registrata da qualche parte, perché tutti la possano ascoltare. C'è quella strana sensazione, in cui ogni tanto si ha la fortuna di imbattersi, di stare ascoltando la musica di qualcuno che, mentre suona, si diverte un mondo: la musica di una manciata di ragazzini con i capelli lunghi, le barbe incerte e le magliette nere.

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