I testi di questo ennesimo capolavoro di Fabrizio De André sono interamente in genovese, strana lingua dalle strascicate sonorità portoghesi, ma ricca anche di vocaboli di origine araba. Senza un'opportuna traduzione a lato non ci si capirebbe veramente un "belin". Ma la musica abbatte quasi interamente questo ostacolo: questa volta il collaboratore eccellente è Mauro Pagani, ex P.F.M. Ne risulta un disco "etnico" nel miglior senso della parola, di ispirazione non tanto prettamente genovese, quanto mediterranea in generale, con un certo anticipo sulle mode anni '90. Un flauto di origine turca introduce "Creuza de ma" (letteralmente "sentiero di mare", o stretta strada tra due muri) affresco di vita di un luogo che può essere la vecchia Genova o un qualsiasi villaggio ligure di pescatori, attraversato da gente da sempre portata e al tempo stesso condannata a viaggiare per mare, che osserva scettica i villeggianti, "gente di Lugano con facce da tagliaborse".

Una Liguria di altri tempi, non ancora enorme villaggio-vacanze: si sentono ancora le voci del mercato del pesce, che legano il finale alla canzone successiva, "Jamin-a", ritratto a tinte forti di una calda e generosa "lupa di pelle scura, sultana delle bagasce", sogno non troppo proibito dei marinai. Qui il genovese camuffa delle espressioni molto "hard", come si suol dire, e la musica si fa ritmata e orientaleggiante. Ci riporta drammaticamente alla cronaca "Sidun", sconsolato pianto del padre di un bimbo palestinese ammazzato bestialmente dai soldati israeliani, che hanno come obiettivo che di palestinese "non possa più crescere albero, né spiga, né figlio". E' il momento più toccante del disco, e il pathos è altissimo anche grazie al suono metallico e disperato di un bouzouki (specie di mandolino greco) e al coro finale, che simboleggia una tragedia senza fine.

Realmente accaduta è la storia di "Sinan Capudàn Pascià", marinaio genovese fatto prigioniero dai turchi nel XV secolo, e in seguito, per aver salvato la vita al Sultano, nominato Gran Visir, che non vuole essere considerato per questo un rinnegato. Nell'antica Genova sono ambientate "A pittima", figura realmente esistita di esattore di crediti, che sembra scusarsi del suo mestiere ("cosa ci posso fare se non ho braccia da marinaio, se non ho mani da muratore...?"), e "A dumenega", festoso carosello di puttane che la domenica venivano lasciate libere di uscire dai casini, portando confusione e vivacità nelle strade, con il consenso del Comune (sui loro guadagni era basato il finaziamento del molo portuale). Come in "Jamin-a" linguaggio non oxfordiano, ma tanto è in genovese. Chiude "Da a me riva", momento di nostalgia di un marinaio che da chissà dove (ma senz'altro sul mare) pensa a Genova lontana. Sentire questo disco fa venire voglia di vedere il mare, ma possibilmente non "tra i gelati e le bandiere" come a Rimini.

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