Serata fiacca, ragazzi. Sono appena le 01:38 del mattino e già mi ritrovo a casa; non era mai accaduto che rincasassi così presto; mah, sarà che stiamo invecchiando noi del 1989. Gli amici non hanno voglia di continuare la serata, la fidanzata non ha voglia di fare altre cose. Tutti a casa, via. Reduce fresco fresco di una serata passata ad ascoltare cover bands rispettivamente di Dream Theater, Metallica, Tool (per carità, ottima musica, nessun dubbio), ma ora, in questo preciso momento, sto ascoltando l'Indiano di Fabrizio de André.

Cavolo, che strana sensazione. Perchè tanti artifizi musicali? Tecnicismo all'estremo? Basta ascoltare questo disco per rendersi conto di come bastino pochi strumenti, delicatamente accarezzati, per fare dell'ottima musica. Batteria, basso, chitarra, piano, voci (sì, anche le voci). Una commistione perfetta, niente di speciale dal punto di vista tecnico, anzi, l'essenzialità la fa da padrona. Essenzialità musicale, questo è ciò che traspare nella mia mente, non mi importa sapere se il cantautore è circondato da virtuosi musicisti, non mi importa sapere chi è il collaboratore dei testi, non mi importa sapere nulla del making of del disco. Ce l'ho davanti, il disco, sta ruotando sul giradischi. Voglio solo assaporare la sua musica. Se mi permettete questa considerazione, direi che il suono risulta molto più dolce e smussato rispetto a Rimini, ma al tempo stesso maggiormente gradevole.

Molto completo, rispetto ai primi dischi, ma meno ricco rispetto a Rimni e Creuza De Mä. Cavolo, direte, e allora cosa ha di speciale? La mia opinione è che Indiano sia un disco orecchiabile, commerciale. Dò ragione a Wikipedia. Ma solo a metà, perchè i testi... o diamine i testi... sono ancora grattacapi per la mia testa. Uno strano nonsense pervade i contenuti delle canzoni, cavolo vorrei tanto cercare una guida-spiegazione di tali brani, ma temo di perdere il fascino che preservo nei loro confronti. Mi chiedo: "Ma cosa avrà voluto dire?" oppure: "Diamine, era così chiaro ed esplicito nei precedenti dischi, che gli sarà capitato?" e alla fine: "Però, forse sta virando verso scelte musicali a lui inesplorate, che non possiamo comprendere, che genio, ma sì, è forte".

Credo di riuscire a comprendere appieno, nella loro totalità,  pochi brani ("Canto del servo pastore", "Franziska", "Verdi Pascoli" e, ovviamente, "Deus Ti Salvet Maria"), mentre per gli altri riesco a comprenderne i contenuti, ma non a ricostruire la storia, la vicenda imperniata sulla canzone stessa. Il fatto è che De André tende in questo disco (e nel precedente) a fare una sorta di collage fra contesti, ambienti, talvolta senza senso logico o spazio-temporale. Spazia totalmente in ambiti opposti, diversi, anche nel breve lasso di un verso. Credo che in realtà nella testa del nostro beneamato la connessione logica era presente eccome, e forse riescono a coglierla anche le menti più brillanti, ma per quelli come me, e come altri, questi messaggi sono ancora perlopiù indecifrabili.

"Fu un generale di venti anni , figlio di un temporale / ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek". Si comprende che il generale forse guida l'esercito che ha ucciso i bambini, che ora giacciono nel fiume. Generale di venti anni, figlio di un temporale? Forse vuol dire che tale uomo è stato concepito durante un temporale? In un momento meteorologico particolare che ha favorito l'unione amorosa? E' a questi esempi che mi riferisco. Ce ne sono centinaia nell'album, sarebbe impossibile citarli tutti. Le vicende sono possibili (da interpretare), ma mai dichiarate apertamente. Non è una rivelazione, dobbiamo andare a scavarla. Ed è questo fattore che rende il disco dannatamente affascinante, oscuro, più di quanto sembri, più dell'apparente semplicità (musicale) che prima accennavo.

Forse due contrappesi che garantiscono l'equilibrio dell'album. Un album stupendo. Un concept (?) che fa perno sulla storia sarda, e su quella indiana. Mi sento chiamato in causa essendo sardo, provo una certa emozione nell'acoltare De André che canta del Supramonte ("Hotel Supramonte"), che intitola una canzone "Franziska", che riprende un motivo dell'antica tradizione canora isolana ("Deus Ti Salvet Maria"), nel rapporto tra l'uomo sardo e l' "uomo di fuori" ("Quello che non ho").

Uomo meraviglioso, il Faber, nonostante quello che aveva subito appena un anno prima. Lui non ha mai smesso di amare i sardi, e per questo i sardi, quelli autentici, non l'hanno mai dimenticato.

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